La scelta del nuovo direttore generale vale la reputazione del neo-ministro. In corsa Antonio Guglielmi (Mediobanca), candidato 5Stelle, amico della Boschi e vicino a Savona. Ma la struttura di via XX settembre tifa per l'Interno Alessandro Rivera, sostenuto da Guzzetti

Primo banco di prova per Giovanni Tria. Nei prossimi giorni il neo-ministro dell’Economia si giocherà buona parte della sua reputation sul rinnovo della direzione generale del Tesoro, partita che si intreccia con quella per il vertice del salvadanaio pubblico Cdp.

Si tratta di sostituire Vincenzo La Via, già scaduto e trattenuto da Pier Carlo Padoan, con la sponda di Mario Draghi e del Quirinale, per scongiurare l’arrivo di un renziano (dopo che l’ex leader del Pd aveva bocciato il capo della segreteria tecnica del ministero Fabrizio Pagani, considerato troppo vicino a Enrico Letta).

I bookmaker danno in calo Antonio Guglielmi, il responsabile dell’equity market di Mediobanca che da tempo scalpita e sembra essersi ormai affrancato dal controllo del suo capo Alberto Nagel. Candidato dei 5Stelle (alla vigilia delle elezioni lesto ha presentato Giggino Di Maio agli investitori londinesi), legato al giro dell’ex panterona di palazzo Chigi Maria Elena Boschi, Guglielmi è autore di un discusso studio sulle conseguenze di un’uscita dell’Italia dall’euro. Soprattutto, è considerato troppo in sintonia con il nemico pubblico numero uno della stabilità, il “fratello” ministro professor Paolo Savona.

Per questo il corpaccione di via XX settembre, a partire dal capo di gabinetto Roberto Garofoli, non si fida. E punta su un interno: il veterano Alessandro Rivera, che vanta anche l’appoggio di Giuseppe Guzzetti.

?In alternativa, se non riuscisse a piazzarlo in prima battuta alla Cdp, il grande vecchio delle fondazioni pensa a Dario Scannapieco (Bei), che farebbe dormire sonni più tranquilli anche a Draghi e al Quirinale. Sullo sfondo fa capolino Salvatore Rossi, prezzemolino della Banca D’Italia. Per lui (come del resto per Guglielmi e Scannapieco) ci sarebbe un problema in più: il tetto di 240 mila euro allo stipendio.

Proprio quello testé allegramente aggirato, sotto il naso di Tria, dai presidenti delle società pubbliche quotate.