«Farinetti ha ragione. Renzi cerca sempre un nemico», dice il politologo Michele Prospero: «È la sua cultura politica. La non-cultura tipica della rottamazione. Che infatti grida “fuori fuori”»

«La Leopolda, il luogo mitico del renzismo», per Michele Prospero, professore di scienza politica e filosofia del diritto dell’università La Sapienza di Roma, «è un luogo di obbedienza e celebrazione». Il giudizio sulla kermesse renziana, arrivata alla sua settima edizione, è dunque duro, come prevedibile per chi non ha mai risparmiato nulla al presidente del Consiglio. E neanche al Pd, però, che - «esplosi i suoi vizi fondativi» - è addirittura «uno dei principali responsabili dell’alterazione della forma di governo parlamentare». Non solo i capigruppo e il presidente del partito non hanno più autonomia: «Anche la figura del presidente del Consiglio», ci dice Prospero, «con Renzi viene sottoposta a uno stress inedito: non sappiamo mai se a irridere altri dirigenti politici e parlamentari, se ad attaccare il sindaco di Roma, se a insultare giornali e giornalisti è il segretario di un partito o il presidente del Consiglio. Cosa che sarebbe grave».

Dice Pierluigi Bersani: «Alla Leopolda possono gridare “fuori fuori” fino a sgolarsi: una pagliacciata che dimostra che in quel posto non c’è cultura politica». È una replica amara, all’attacco del presidente del Consiglio e agli applausi della sua platea. Ma è anche una replica ingenerosa. Può non piacere, infatti, ma Renzi ha una sua cultura e un immaginario politico, anche forte.
«Quando Bersani dice che lì, nel luogo mitico del renzismo, non c’è una cultura politica, allude al fatto che la cultura del renzismo è la non-cultura; ricorda che l’idea base della rottamazione, da cui tutto muove, è che non esiste un pensiero sulla politica, che non ci si deve mai confrontare su culture o identità. L’identità è solo la rottamazione, la destrutturazione del nemico. Alla Leopolda e a palazzo Chigi basta dire che sei vecchio per annichilire la tua diversità. Non serve altro. Non serve neanche un partito, non serve il Pd, che è infatti diventato un non-partito».

Potrei dirle che così sembra aver ragione Renzi quando dice che la minoranza interna disprezza «la Ditta» solo quando non è più lei a dirigerla. Se il Pd è un non-partito non sarà mica colpa di Renzi...
«Che quello del Pd sia un vizio genetico è vero. Ma è con Renzi che il vizio diventa malattia. Perché lui non controlla solo la Leopolda, la sua fazione personale, ma controlla il partito e attraverso il partito controlla il governo. E in tutti questi passaggi non ha nessuno strumento di controllo, nessuno che lo richiami. Non c’è un presidente del partito, ad esempio, che gli dica che non può offendere gli altri dirigenti».

Dice che Orfini non è un presidente di garanzia?
«Dico che nel non-partito dove tutto dipende dal capo, i rappresentanti della minoranza che ricevono una carica, sia interna o sia al governo, diventano rapidamente degli ultrà renziani. Vale per Orlando, per Martina, per Terranova. È il sintomo del fatto che il partito non è più un posto plurale».

Non è più il partito dei caminetti. Ma per Renzi questo è un vanto.
«Ma le contraddizioni dei primi anni del Pd, dei caminetti, delle mediazioni tra le componenti fondatrici, sono saltate in favore di un blocco di potere personale. Non mi pare un avanzamento. Le contraddizioni costitutive del Pd, con il renzismo, sono semmai esplose».

Che il segretario dovesse essere anche il presidente del Consiglio è però un pilastro fondativo del Pd. Fu dunque un errore, la sottovalutazione di chi non aveva previsto un politico dal temperamento di Matteo Renzi?
«È un errore costitutivo, senza dubbio. Come è stato un errore far nascere un partito sull’idea che il maggioritario in quanto tale sia un valore, e che le primarie possano essere l’identità del partito. Sono limiti che in condizioni normali possono esser corretti con responsabilità. Bersani, ad esempio, aveva detto che in caso di vittoria avrebbe lasciato la segreteria, nel solco della tradizione della sinistra post comunista, dove D’Alema che va al governo lascia il partito a Veltroni. Sono limiti che in altre condizioni, però, come quelle di oggi, diventano esplosivi, arrivando ad alterare lo stesso regime parlamentare».

Addirittura?
«Tra le primarie e la sovrapposizione della figura del premier e del segretario, il Pd è uno dei principali responsabili dell’alterazione della forma di governo parlamentare, sì. Nessuno ha più un ruolo, nessuno ha più autonomia: non lo hanno i capigruppo parlamentari, non lo ha il presidente del partito. E anche la figura del presidente del Consiglio viene con Renzi sottoposta a uno stress inedito: non sappiamo mai se a irridere altri dirigenti politici e parlamentari, se ad attaccare il sindaco di Roma, se a insultare giornali e giornalisti è il segretario di un partito o il presidente del Consiglio. Cosa che sarebbe grave».

Una minoranza esiste, però, e ottiene anche dei risultati, almeno secondo Cuperlo che è ad esempio soddisfatto della disponibilità ottenuta sull’Italicum.
«Il documento prodotto dalla commissione sull’Italicum è vago, non contiene impegni concreti e anzi in alcuni passaggi sembra evocare lo spettro del Porcellum. La vicenda di Cuperlo, dunque, rientra perfettamente in quanto detto finora. La sua sembra infatti una resa, personale, a tratti psicologica, che nulla ha a che fare con la politica».

Oscar Farinetti dice che Renzi deve tornare ad esser più simpatico. Almeno su questo sarà d’accordo, no?  
«Nelle parole di Farinetti c’è del vero: con l’idea dell’antipatia, evoca un sentimento di avversione che sta crescendo e che può effettivamente diventare pericoloso per il presidente del Consiglio. L’odio - che è primitivo - è infatti una forza di aggregazione politica che non va sottovalutata: ne parla Gramsci (La scienza politica di Gramsci è l’ultimo saggio di Prospero, ndr), ne parla Machiavelli. Quello che gli sta dicendo Farinetti è che se Renzi perderà il referendum è perché questo sentimento si sarà cementato e avrà trovato una sua forma. Una forma che, paradossalmente, è stato lo stesso Renzi a dargli, ricercando continuamente un plebiscito. Su tutto, a cominciare dalle riforme».

Che la comunicazione di Renzi si basi sulla contrapposizione, spesso muscolare, è un dato di fatto. E finora ha funzionato.
«Renzi cerca continuamente un nemico, qualcuno a cui stare antipatico: se ne è creati molti, spesso scientificamente. Renzi cerca la contrapposizione così come cerca continuamente l’acclamazione. La cerca alla Leopolda o durante le direzioni del Pd, che sono entrambi luoghi di obbedienza e celebrazione. Ma personalizzare quando si sta al potere è perlomeno incauto».