Sono ai primi posti per partecipazione al voto in Aula. Assicurano la tenuta del governo. Compensano le assenze dei colleghi della maggioranza. Ma vengono usati solo come stampella per far approvare le leggi. Sulle quali riescono a incidere poco o nulla. Nel dossier sulla produttività di deputati e senatori, la sorte di tanti sconosciuti onorevoli dem

Da quando ha fatto il suo ingresso alla Camera, la deputata Pd Cinzia Maria Fontana non ha perso un colpo: in quasi tre anni è riuscita a non mancare nemmeno a una delle oltre 14 mila votazioni elettroniche d'Aula. Mai un'influenza, un imprevisto, un ritardo l'ha tenuta lontana dal suo scranno. Nessuno è stato più assiduo di lei, nell'emiciclo di Montecitorio. Eppure, a fronte di tale impegno stacanovista, questa ex sindacalista Cgil ha una produttività che è la metà rispetto a quella dei suoi colleghi. Risultato: è relegata nella parte bassa della classifica, alla posizione numero 408.

Giuseppe Guerini siede sulla sua stessa fila, a pochi banchi di distanza. Anche lui del Pd, anche lui lombardo, anche lui diligentissimo. Di votazioni ne ha saltate due soltanto: lo scorso 24 novembre, durante la quarta lettura della riforma costituzionale firmata Maria Elena Boschi. Eppure - malgrado il 99,99 per cento di presenze in Aula lo collochi al secondo posto - anche lui ha un indice di efficacia molto al di sotto della media e in classifica è solo 323esimo. Come anche il terzo sul podio Tino Iannuzzi, pure lui Pd, 260esimo.


È la triste vita del peone del Partito democratico, messa in luce dal nuovo dossier dell'associazione Openpolis dedicato alla produttività parlamentare e presentato in anteprima dall'Espresso. Un indice calcolato in base alla partecipazione ai lavori, alla presentazione di atti, all'approvazione di propri progetti di legge o alla capacità di raccogliere su di essi un consenso trasversale, con l'assegnazione di diversi punteggi. Il risultato è un valore che consente di valutare la capacità di incidere sulla legislazione di ogni singolo deputato e senatore.


Che dimostra, ad esempio, proprio il ruolo negletto di tanto sconosciuti deputati del Pd, ridotti a schiaccia-pulsanti per conto del governo: fondamentali per assicurarne la tenuta, compensare le assenze negli altri partiti della maggioranza e convertire i decreti di Palazzo Chigi ma dall'influenza scarsa o nulla. Soprattutto alla Camera. 


  
Un male che però non sembra affliggere i senatori democratici, tutti nella parte alta della classifica. Come spiegare questa differenza? Innanzitutto col fatto che a Palazzo Madama i parlamentari sono la metà e quindi è più agevole influire sul processo legislativo. Ma anche perché al Senato il Pd ha “solo” 112 onorevoli (contro i 302 di Montecitorio) e quindi è più facile diventare relatore di qualche disegno di legge e guadagnare punteggio.

 

 

STAMPELLA DEMOCRATICA

Con un Parlamento ridotto da anni a propaggine del governo di turno, il risultato è comunque che tantissimi onorevoli democratici si limitano a fare presenza. Un pacchetto di mischia buono per strappare l'ovale all'avversario ma spesso incapace di fare meta.

 

Fra i primi 50 deputati per tasso di partecipazione ai lavori d'Aula, ad esempio, quelli del Pd sono 45 ma navigano per lo più nella parte bassa della classifica. E i loro colleghi meno assidui non fanno meglio: nel complesso tre quarti degli eletti dem (ben 226) non raggiungono la sufficienza. Solo Forza Italia fa peggio. Musica simile a Palazzo Madama: fra i 20 più presenti, 17 sono del Partito democratico ma il 60 per cento dei senatori del gruppo (ovvero 67) risultano al di sotto della media di produttività. Insomma, col pallino in mano al governo, pochi riescono a ritagliarsi uno spazio.
 


Il Pd in Parlamento, insomma, deve assicurare la tenuta del governo, in particolar modo al Senato dove i numeri sono più risicati. Con un paradosso: essendo alla Camera a un soffio dalla maggioranza assoluta (grazie al generoso premio di maggioranza assegnato dal bistrattato Porcellum) questo sforzo i democratici a Montecitorio lo reggono quasi da soli. E malgrado i tanti posti-chiave nell'esecutivo, i deputati di Area popolare (Ncd-Udc) non brillano affatto per zelo: più della metà sono sempre assenti.

 

CHI CONTA DAVVERO
La lezione è chiara: in Parlamento pesa solo chi ha un ruolo istituzionale. Che sia la presidenza di una commissione o un incarico da capogruppo. Solo così si può sperare nell'approvazione di emendamenti a propria firma o su un incarico di relatore per i provvedimenti più delicati. In questo modo, anche senza essere un presenzialista dell'Aula, è possibile scalare la vetta della produttività.

 

Lo dimostra il caso del deputato Francesco Paolo Sisto, l'ultrà berlusconiano che Forza Italia vorrebbe far eleggere alla Corte costituzionale. Presidente della commissione Affari costituzionali fino alla scorsa estate, è stato correlatore dell'Italicum e della riforma Boschi ed è il primo in classifica alla Camera. Malgrado abbia un tasso bassissimo di presenze: il 27 per cento appena. Proprio come un altro forzista doc: il presidente della commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma, relatore del ddl Anticorruzione e di quello sul voto di scambio mafioso, che ha partecipato solo al 38 per cento delle votazioni. 


 

 

Sisto e Palma non sono soli. La terza classificata alla Camera, Donatella Ferranti, presiede la commissione Giustizia e ha partecipato solo a 1 votazione su 3. Ma ci sono anche eccezioni lodevoli, di parlamentari che concepiscono il loro lavoro anche sotto il profilo della presenza ai lavori. La prima classificata al Senato, Loredana De Petris (Sel), è capogruppo sia in Aula che in commissione Affari costituzionali e ha un tasso di partecipazione dell'84 per cento. Ancora più diligente Giorgio Pagliari (Pd), che al terzo posto per produttività aggiunge il 96 per cento di presenze.