Tutti dicono di volere il taglio dei soldi ai partiti ma, al momento buono, ogni innovazione viene bloccata. Ma il ddl non è esente da pecche. Ecco quali

La riforma del finanziamento della politica sta divenendo una pièce da commedia dell'arte. Tutti dicono di volere il taglio dei soldi ai partiti ma, al momento buono, ogni innovazione viene bloccata. Lo è anche il disegno di legge governativo in discussione "Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici" che pure ci sembra truffaldino, irrealistico e di improbabile attuazione. Vediamo perché.

Truffaldino. ll ddl prevede un finanziamento così articolato: a) erogazioni private con il 52 per cento di detrazioni fiscali fino a 5 mila euro e con il 26 da 5 mila a 20 mila; b) 2x1000 dell'imposta sul reddito (analogo al 5x1000 per le onlus e all'8X1000 per le chiese); c) concessione gratuita di sedi, servizi e comunicazioni televisive; d) introduzione della disciplina dei partiti. Il difetto principale del nuovo sistema sta proprio in quel 2x1000 presentato come una contribuzione "volontaria" mentre in realtà scarica su tutti i contribuenti, volenti o nolenti, l'onere del finanziamento ai partiti come nel caso dell'8x1000 che destina alla chiesa cattolica non già l'obolo del 35 per cento di coloro che la scelgono (per un importo che dovrebbe essere di 350 milioni di euro l'anno), ma quello di tutti i contribuenti che assegna alla Cei circa 1 miliardo 200 milioni.

Irrealistico. Un meccanismo simile al 2x1000 è stato già sperimentato con la legge del 4x1000 del 1997 che fu subito abrogata perché inapplicabile. Infatti il conteggio sulle dichiarazioni dei redditi ritarda di tre-quattro anni per cui si procede con gli anticipi che finiscono poi per divenire permanenti. Piero Ignazi ed Eugenio Pizzimenti contrappongono all'irrealistico e oneroso 2x1000 un ragionevole sistema che combina il finanziamento pubblico ridotto nell'importo (30 milioni per ogni elezione) e le contribuzioni private defiscalizzate secondo un rapporto di uno a due, sotto il controllo della Corte dei conti. Si tratta di un finanziamento che agisce sulla riduzione delle entrate analogo a quello proposto da chi scrive che prevede, oltre a trasparenti e contenute contribuzioni private dirette, un rimborso di 1 euro a voto espresso (i voti sono circa 30-35 milioni) da versare in parte al centro e in parte alla periferia, in modo da non cristallizzare le oligarchie partitico-finanziarie.

Improbabile. La riforma che la Camera si era impegnata a discutere il 26 luglio sta scivolando a settembre sotto l'assedio di centinaia di emendamenti mentre è stato dato il via libera all'attuale finanziamento (91 milioni) per il quale si è battuto il ministro Quagliariello: «Sospendendo il pagamento dell'attuale rata si rischierebbe non solo il licenziamento dei dipendenti, ma anche l'indipendenza dei partiti». Al momento le proposte in discussione sono numerose e contraddittorie. Il Pdl si batte per aumentare il tetto del finanziamento privato a 300 mila euro senza dichiarazione congiunta tra donatore e benefattore perché restino anonimi con l'assurdo pretesto della privacy e per depenalizzare il reato di contribuzione occulta da parte delle società pubbliche e controllate dallo Stato. Il Pd si prefigge di alzare la quota per i partiti dal 2 al 2,5x1000, di stabilire un tetto alle donazioni dei privati e di garantire ai dipendenti la cassa integrazione straordinaria. Da parte loro i renziani chiedono la fine del finanziamento pubblico e l'abolizione della concessione di sedi, spazi tv e tariffe agevolate; Ugo Sposetti, storico tesoriere del Pds e teorico del partito statizzato, lancia il grido di dolore: «Senza finanziamenti pubblici ai partiti la democrazia muore»; Fabrizio Barca rileva, al contrario, che il copioso finanziamento pubblico ha trasformato la natura dei partiti da espressione della società ad appendici dello Stato.

La questione da affrontare, prima ancora del controllo delle spese esploso in seguito ai grotteschi casi dei consiglieri regionali, è la riduzione drastica del fiume di denaro che si riversa sui partiti facendone pesanti macchine burocratiche. La riforma Letta realizza davvero quella "abolizione del finanziamento pubblico dei partiti" che solennemente proclama? Basta fare due conti per capire che non è così. Il 2x1000 di tutti i contribuenti vale circa 300 milioni di euro l'anno; i crediti d'imposta sui contributi privati assommano almeno ad alcune decine di milioni e altrettanto valgono le agevolazioni su sedi e benefit vari, per un totale di finanziamento a carico della finanza pubblica superiore ai 289,8 milioni versati ai partiti nel 2010 e ai 189,2 del 2011. Ma il banchetto non finisce qui. Sono quasi un centinaio i milioni versati annualmente ai gruppi parlamentari di Camera e Senato e una quarantina quelli ai gruppi regionali, somme che in parte servono a rimpinguare i partiti così come le percentuali prelevate dagli emolumenti (alti) ai parlamentari e ai consiglieri regionali.

La voce, tuttavia, che meriterebbe maggiore attenzione riguarda i denari che affluiscono alle fondazioni dei capi e capetti di partito. Le cronache segnalano che la fondazione VeDrò di Enrico Letta, indagata per i denari ricevuti dal Consorzio Venezia Nuova, è finanziata anche da Enel, Eni, Telecom, Vodafone, Sky, Fs, Alitalia e Google. Queste nuove fondazioni (diverse da quelle storiche Sturzo, Gramsci, Nenni) sono ormai un centinaio e i contributi loro versati, soprattutto dalle aziende pubbliche, ammontano nel complesso a cifre superiori a quelle incassate dai partiti. È dunque arrivato il momento di disciplinare anche questa finanza dei partiti introducendo regole trasparenti che garantiscano la democrazia interna e l'eguaglianza dei punti di partenza tra forze vecchie e nuove, e tra oligarchie centrali e formazioni locali. Per salvare la politica dal denaro.