Il decreto che vieta ai condannati di candidarsi alle elezioni rischia di non essere convertito in tempo. dal Parlamento. Eppure sembra un atto doveroso in un Paese dove la corruzione è una piaga sociale diffusa

Non è semplice spiegare all'estero perché ci sia bisogno di una legge per fare sì che un condannato per associazione mafiosa, terrorismo o frode fiscale non possa essere candidato in Parlamento per rappresentare il popolo italiano. Non è facile spiegarlo in Gran Bretagna («Why do you need a law?»)dove un ministro che ha superato il limite di velocità in automobile, ma ha negato di averlo fatto, appena si è scoperta la bugia si è dimesso. Noi, invece, abbiamo visto di tutto e ci siamo abituati al peggio. Un timido tentativo di correggere la rotta è arrivato pochi giorni fa con il decreto "liste pulite".

IL PROVVEDIMENTO PREVEDE che le persone condannate in via definitiva a una pena superiore ai due anni non possano essere candidate, almeno per qualche anno. Il decreto è arrivato in Parlamento e attende il parere delle commissioni, ma c'è il rischio che l'approvazione in via definitiva non arrivi in tempo per entrare in vigore prima della presentazione delle liste elettorali alle prossime elezioni. È reale dunque la possibilità che alcuni condannati, come in passato, avranno l'onore di rappresentare gli italiani. Vale la pena ricordare che la parola candidato veniva usata nell'antica Roma per indicare la toga bianca, candida, con cui appariva in pubblico chi ambiva a ricoprire una carica statale.

È vero che anche allora occorrevano leggi per imporre comportamenti etici. Il Pontifex Maximus, per esempio, poteva decretare un cambio del calendario anche solo per determinare vantaggi economici o addirittura la cancellazione dei debiti ad alcuni senatori. L'anno 46 a. C., definito ultimus annus confusionis, durò addirittura 16 mesi. Giulio Cesare decise di intervenire per imprimere un cambio radicale e introdusse un conteggio certo dell'anno che iniziasse il primo di gennaio e durasse dodici mesi, in modo da eliminare truffe che portavano illeciti vantaggi economici a potenti e politici. Ancora oggi il nostro calendario risente di tale decisione.

Tornando al 2012, la legge è un buon punto di partenza ma certo si poteva fare di più. Il concetto di "liste pulite" stride con il fatto che chiunque sia stato condannato a pene inferiori a due anni possa tranquillamente candidarsi. Perché chi è chiamato alla gestione della cosa pubblica non deve avere alcuna macchia di condanna, qualsiasi sia il tempo della pena: è richiesto il massimo grado di integrità e di onestà. Non dimentichiamo che in questi anni uno dei problemi centrali per la vita democratica del nostro paese è stato, ed è, proprio la corruzione, un reato ma ancora prima un problema morale e culturale. Nel Corruption Perceptions Index, pubblicato dall'associazione non governativa Transparency, l'Italia ha perso in tre anni cinque posizioni, passando dal 69esimo posto al 72esimo. È importante che il contrasto alla corruzione sia considerato come fattore strategico per permettere la crescita. Un'azione che deve essere condotta dalle istituzioni, attraverso norme efficaci come la ratifica della Convenzione Penale del Consiglio d'Europa sulla corruzione, finalmente arrivata, con dieci anni di ritardo, grazie all'impegno del governo Monti.

SECONDO L'ULTIMO RAPPORTO della Corte dei Conti, la corruzione annuale in Italia ammonta a 60 miliardi e la Banca mondiale afferma che le imprese grandi e medie del nostro paese sarebbero frenate nella loro crescita a causa di fenomeni di corruzione della pubblica amministrazione. Una vera e propria piaga sociale che va combattuta attraverso strumenti adeguati, che permettano di aumentare la trasparenza, digitalizzando e rendendo pubblici e consultabili i dati e fornendo le informazioni sulle attività svolte. Un'operazione di moralità e legalità che si addice a un Paese che, a buon diritto, vuole essere considerato civile. E così tra qualche anno a Londra o a Berlino non dovremo più balbettare e spiegare perché occorre una legge per non candidare alle massime istituzioni italiane un criminale.