La lunga serie di errori dell'Unione. L'abbaglio di credere che Berlusconi fosse finito. Da qui una maggioranza risicata per il centro-sinistra. Che basterà. A patto che Prodi...

Romano Prodi ce l'ha fatta, forse. E forse riuscirà a formare un governo. E forse riuscirà a governare. E forse darà un po' di pace a questa Italia che odia se stessa. E forse riuscirà a fermare il nostro declino. Già, troppi forse che non rischiarano il grande buio che, nella notte fra il 10 e l'11 aprile, ci ha avvolto di soppiatto, come un nemico in un agguato. Buio perché il centro-sinistra ha conquistato una maggioranza netta alla Camera, ma la sua vittoria è contestata dal centro-destra. Buio perché al Senato la stessa maggioranza è molto esile, e potrebbe bastare un niente per mandarla in crisi.

Tuttavia, in questa oscurità ci sono almeno due domande chiare. E alle quali è possibile rispondere in modo altrettanto chiaro. La prima si può formulare così: il centro-sinistra poteva fare meglio di quel che ha fatto in questo confronto elettorale? Ossia, poteva ottenere una vittoria più esplicita, più robusta e più incontestabile di quella tisica, al limite della sconfitta, che ha conquistato? La seconda domanda la propongo con uguale semplicità: nel caso che la sua vittoria venga confermata, come dovrà muoversi il Parroco dell'Unione nei passi successivi, a cominciare dalla formazione della squadra di governo?

Alla prima domanda, la mia risposta di elettore dell'Unione è secca: certo, si poteva fare di meglio. E il non averlo fatto è una colpa grave dei partiti di centro-sinistra, e più di tutti dei due partiti maggiori, i Ds e la Margherita. Il passo iniziale che non si è voluto compiere è di lasciare che Prodi mettesse in campo una propria lista, separata anche se alleata con quelle dei partiti omogenei. Non è un rammarico dettato dal senno di poi. Il problema è sempre stato chiaro. Quando l'ho intervistato, il 2 e il 4 aprile, il Professore mi ha detto nei nostri conversari fuori taccuino: "Se mi avessero lasciato fare un mia lista, a quest'ora avremmo già vinto, anzi stravinto".

Ma quella lista Piero Fassino e Francesco Rutelli, i leader dei gruppi più forti dell'Unione, non l'hanno voluta. Per tanti motivi, ma soprattutto, credo, per il timore di rendere Prodi troppo forte, di dotarlo di un suo piccolo esercito di elettori che confidavano soltanto in lui. Eppure, non dovrebbe essere questo l'obiettivo primario di una coalizione? Scegli chi ti guiderà nella battaglia. E poi fai il possibile, e anche l'impossibile, per dargli tutti gli strumenti per vincere. Naturale, no? Logico, no? Semplice buon senso, no?

Invece, la risposta dei big dell'Unione è stata brutale: niente lista Prodi! Anzi, la tirchieria ottusa dei partiti si è spinta a dare a Prodi soltanto cinque deputati sicuri. Cinque! Un'elemosina, arrogante prima ancora che umiliante. Anzi, voglio dire di più: un gesto da sabotatori, quasi da quinte colonne di Silvio Berlusconi. Con il risultato di esporre il capo della coalizione agli assalti beffardi del centro-destra. Quante volte abbiamo sentito il Cavaliere gridare a Prodi quel che ha gridato per settimane? Sei un uomo di facciata, strillava la Casa delle libertà. Non conti nulla. Non sarai mai il leader del centro-sinistra. Tant'è vero che i tuoi deputati potrai contarli sulle dita di una mano.

L'altra occasione che non è stata colta era di fare un lista dell'Ulivo non soltanto per la Camera, ma anche per il Senato. È stato Rutelli a dire di no? O anche Fassino, insieme a qualche caporale dell'Unione? Dopo il disastro di Palazzo Madama, è quasi inutile cercare una risposta. Ma quello che mi chiedo è se, oggi, gli affossatori di questo progetto si siano pentiti. In proposito, ho ascoltato una sola autocritica, quella del diessino Marco Minniti, un parlamentare che stimo.

La sera del 10 aprile, nella nottata elettorale a La7, guidata da Antonello Piroso, un po' incalzato da me Minniti ha dato una risposta onesta: "Sì, non fare una lista dell'Ulivo anche al Senato è stato un errore politico". E che errore, si può aggiungere. È quasi certo che, con quella lista mai nata, a Palazzo Madama si sarebbero potuti strappare i voti necessari ad avere anche lì una maggioranza di seggi meno risicata. Qualche regione passata al centro-destra per uno scarto minimo, sarebbe stata del centro-sinistra. Evitando la trappola nella quale Prodi è stato cacciato per l'egoismo irresponsabile dei capi partito.

Ma c'è ancora un altro errore che non si doveva fare: accentuare il connotato peggiore del centro-sinistra. Ossia la sua scarsa omogeneità politica, le sue diversità profonde, nella strategia, nei traguardi da raggiungere e, persino, nel modo di intendere l'alleanza e i rapporti con gli alleati. E qui devo riparlare di un mio vecchio chiodo: del Parolaio Rosso, alias Fausto Bertinotti, e della sua Rifondazione comunista. Lo farò con un esempio pratico che vale, credo, più di mille teorie.

Sempre nella nottata elettorale a La7, dopo la mezzanotte è arrivato in studio Alfonso Gianni, il braccio destro di Bertinotti, il politico che conosce meglio di tutti il suo leader, anche per aver scritto con lui almeno un paio di libri. Ho detto a Gianni: "Dovevate essere più leali con la vostra coalizione. E non proclamare che il vostro avversario principale stava dentro il centro-sinistra". Gianni mi ha smentito. E ha strillato che nessuno di loro aveva mai sostenuto quella follia. Gli ho replicato dicendo che, in questo articolo, avrei smentito lui. E adesso lo faccio.

Lo faccio nel modo più elementare, seguendo il detto: carta canta e villan dorme. La carta che canta risale al momento iniziale della campagna elettorale. La domenica 15 febbraio 2006, il quotidiano rifondarolo, 'Liberazione', si apriva con una lunga intervista a Bertinotti, raccolta da Rina Gagliardi, una delle teste d'uovo del partito. Il Parolaio vi spiegava che Rifondazione era al centro di un'offensiva condotta da molti avversari. E poi aggiungeva: "Ma l'attacco più insidioso, e intenso, ha il suo nucleo nelle ali moderate della stessa coalizione di centro-sinistra".

"Perché lo fanno?" si domandava Bertinotti. E si rispondeva così: "Non ci si può sbagliare. Lo fanno per il timore che, insieme alla vittoria elettorale dell'Unione, ci possa essere una vera svolta riformatrice". I nostri alleati moderati "hanno paura che, dopo il 9 aprile, si avvii una nuova stagione: non solo la sconfitta di Berlusconi e l'uscita dal ciclo economico e politico degli ultimi cinque anni, ma la volontà di invertire la strada degli ultimi venti anni".

Ecco servito il compagno Gianni. Ma lui conta poco in questo catalogo degli errori. Conta assai di più quel che emergeva in modo lampante dalle parole di Bertinotti. E che mi aveva spinto a citarle in un Bestiario su 'L'espresso' del 2 marzo 2006. Quel che emergeva era la solita idea conflittuale dell'alleanza guidata da Prodi: il vero nemico stava in casa (i moderati dell'Unione) e non fuori. Insieme all'intenzione di battersi affinché il governo Prodi, una volta nato, avesse un tono radicale tanto forte da cancellare, addirittura, l'ultimo ventennio di storia politica ed economica italiana.

Un ottimo piano di battaglia. Che il 9 e il 10 aprile è saltato per aria. Per una ragione molto semplice: una parte dei possibili elettori del centro-sinistra non si sono fidati di dare il proprio voto a una coalizione che comprendeva il Parolaio. E hanno fatto saltare, speriamo non del tutto, anche il banco del Professore.

Infine, c'è un ultimo errore che ha indebolito il centro-sinistra. Un errore fatto di tanti errori: di stile, di comportamento, di atteggiamenti troppo sprezzanti. Penso che si dovrà riparlarne. Perché qui entra in gioco il 'complesso dei migliori', così ben svelato dal sociologo Luca Ricolfi, un intellettuale di sinistra, mica un lacchè di Berlusconi. Nella campagna elettorale, abbiamo visto troppo di tutto. La fretta di considerare l'affare Unipol un errore passeggero. Le candidature famigliari, con le mogli piazzate in posizioni blindate. Gli sprechi di tanti Illustrissimi Superiori che comandano nelle regioni e nelle città rosse. La superbia (sto parlando di Massimo D'Alema) nell'affermare alla vigilia del voto che Berlusconi non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione.

Ma ancora più superba, e ottusa, è stata la convinzione che il ciclo del Cavaliere fosse chiuso per sempre. Non voglio ripetere quel che ho già scritto più volte, e ben prima del 9 aprile. Il Genio del Male, il famoso Caimano, veniva già dato per morto e sepolto. E scrittori, polemisti, comici, cineasti, vignettisti e compagnia cantante si sono affrettati a celebrarne il funerale.

Li stavo a guardare e pensavo, con un brivido di paura, alla Gioiosa Macchina da Guerra guidata da Achille Occhetto nel 1994. Che abbaglio, oggi come allora! Il Berlusca è ben vivo. Ha dalla sua metà del paese. E una volta che avrà formato il governo, Prodi dovrà lavorare avendo sul collo il fiato di Silvio. Che gli romperà i santissimi, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Con tutti i suoi soldi, con tutte le sue televisioni e con tutti i suoi voti.

Proprio la conferma che metà del paese è berlusconiano, deve spingere il centro-sinistra a rendersi conto che si è aperta una nuova epoca nella lotta politica italiana. Si può vincere, e anche governare, con un margine di voti molto esiguo. È già successo in altri paesi dell'Occidente. Ma non si può ignorare quel blocco fortissimo di oppositori. Dunque, niente sciabole sguainate. Al posto della spada, è d'obbligo una cautela intelligente. Nella nottata elettorale, l'ho sentito dire anche da Enrico Letta, della Margherita: "Il paese è spaccato, bisogna parlare con l'altra metà. Noi, e con noi i Ds, dobbiamo capire che non siamo onnipotenti".

Chi invece deve muoversi come se onnipotente lo fosse per davvero è Prodi. Il Professore ha l'obbligo non soltanto di tentar di governare. Senza cadere nella trappola del 'rivotismo', per usare l'immagine di Giovanni Sartori, ossia nella tentazione di ritornare alle urne. Deve anche sfruttare la grande strizza che fa torcere le budella alla Quercia e alla Margherita, i veri sconfitti di queste elezioni. E deve muoversi come il Dittatore democratico dell'Unione. Insomma, sia pure lui un Caimano, zannuto o dentuto, anche verso i suoi, quanto è necessario esserlo.

Prodi presenti il conto agli alleati che non l'hanno sostenuto come dovevano. Decida lui la squadra di governo, rifiutando le pretese ridicole dei tanti che vogliono quel tal ministero, e poi quell'altro, e quell'altro ancora. Stabilisca le priorità programmatiche, evitando ogni radicalismo. E quando sarà il momento dello spoil system, della presa di potere sugli incarichi pubblici, respinga le voglie dei partiti di premiare i soliti noti. O, peggio ancora, di affidare posti delicati a formidabili incompetenti, da sistemare in nome di una dubbia fedeltà. So che il Parroco dell'Ulivo è in grado di muoversi così. E soprattutto di evitare l'errore degli errori: quello di incendiare ancora di più un paese già in fiamme. Sarebbe un passo falso senza rimedio. Tragico per lui e tutta l'Italia. n