In Italia è bassa, appena il 4 per cento, mentre in altri Stati si arriva anche al 50. Sarebbe meglio incrementarla e diminuire la pressione sul lavoro

Le recenti vicende dell’eredità di Silvio Berlusconi mi portano a rivisitare una questione molto delicata: la nostra imposta di successione è troppo bassa? Ricordo che, anche per importi elevati quanto quelli dell’eredità berlusconiana, l’aliquota, per i congiunti diretti come i figli, è solo del 4 per cento. Oltre a ciò esistono varie esenzioni, comprese quelle che riguardano, come sembra per Fininvest, partecipazioni di controllo in imprese.

 

La questione di quale debba essere l’imposta di successione è particolarmente controversa. Da un lato, è legittimo sostenere che l’eredità non debba essere tassata perché la ricchezza che si passa agli eredi è già stata tassata. La ricchezza è frutto del risparmio e il risparmio è frutto di un reddito che è già stato tassato. È l’obiezione che viene mossa a tutte le imposte patrimoniali e non può essere trascurata. Allo stesso tempo, una ricchezza ereditata non è frutto del proprio merito, ma del merito altrui (genitori, parenti, amici). Che fatica si è fatta per riceverla? Perché tassare chi lavora e produce e non chi riceve un beneficio per cui non si è fatto niente? Inoltre, trasferire ricchezza comporta anche trasferire il controllo su attività produttive. Perché il figlio di un grande imprenditore dovrebbe influenzare il destino di un’impresa che non ha creato? L’ereditarietà del potere politico è stata ormai abbandonata dai Paesi democratici come un residuo medioevale, ma quella del potere economico è ancora viva e vegeta. Inoltre, volendo garantire l’uguaglianza di opportunità come principio sociale, perché dare un vantaggio ingiustificato a chi eredita una grande ricchezza? Per questo motivo, alcuni noti miliardari americani (Warren Buffett, Bill Gates) hanno sostenuto la necessità di tassare pesantemente le eredità. Qui li si bollerebbe come «radical chic».

 

Di fronte a queste due contrastanti ragioni (evitare una doppia tassazione e tassare quel che non è frutto del proprio lavoro) serve un compromesso. È allora utile andare a vedere cosa succede in altri Paesi. La verità è che le nostre aliquote ed esenzioni sono più benevole di quelle estere. Il gettito dell’imposta rispetto al Pil è più basso che in Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Giappone, Lussemburgo, Olanda, Spagna, Svizzera, Stati Uniti, Regno Unito e Corea del Sud. In alcuni Paesi (Giappone e Corea del Sud) l’aliquota marginale è addirittura intorno al 50 per cento. Mi sembra quindi che ci sia spazio per aumentare questa tassa. A un patto, però: visto che la nostra pressione fiscale è già alta, la maggiore tassazione delle eredità dovrebbe essere compensata da minori tasse su lavoratori e imprese che producono reddito.

 

Certo, con queste idee corro il rischio di essere bollato da alcuni come un pericoloso bolscevico. Mi appello allora a un illustre precedente. Luigi Einaudi sostenne la necessità di avere in Italia una significativa imposta di successione. Addirittura, seppure a scopo illustrativo, propose un’imposta che, oltre una certa soglia di esenzione, crescesse fino al 10 per cento per coniuge e figli e al 20 per cento per altri parenti. Propose inoltre che quanto fosse passato alla generazione successiva fosse tassato al 30 per cento, con un altro terzo dell’importo originario per la generazione successiva. Sicché, dopo tre generazioni «tutto sarebbe trasmesso all’ente pubblico». Un vero «radical chic»…