La riforma di Roberto Calderoli, se portata avanti, metterà fine all’unità del Paese. Ma è una bomba molto rischiosa per l’esecutivo Meloni

Una certezza c’è: dei due forni avviati da Giorgia Meloni per le riforme uno già brucia ed è quasi incandescente. È quello dell’autonomia differenziata cara alla Lega che spinge per una rapida approvazione, minacciando di sabotare la maggioranza.

 

L’altro, il tavolo istituzionale per l’elezione diretta del premier o del capo dello Stato, è ancora al caro amico. I nodi sono venuti al pettine della premier prima del previsto. L’alleato Matteo Salvini, incalzato dalla curva Nord dei governatori Luca Zaia e Attilio Fontana, vorrebbe un drappo da poter sventolare al popolo di Pontida, addirittura per settembre (motivo per cui il raduno celtico è slittato). O quantomeno entro l’anno, come sbotta il ministro Roberto Calderoli che sa come il vero traguardo siano le Europee 2024. Ma per Meloni ottenere entro quella data un risultato sul fronte del premierato o simili è impossibile, tanto a colpi di maggioranza in Parlamento quanto con una commissione bicamerale. I due forni non possono proprio andare di pari passo.

 

Si arriva così al nodo cruciale: la legislatura è appesa alle sorti dell’autonomia, ma soprattutto a quest’ultima è appesa l’unità del Paese. Con la riforma di marca leghista si va a cambiare di fatto la forma dello Stato, trasformandolo in federale, con legge ordinaria e senza nemmeno applicare i passaggi obbligati per riscrivere la Costituzione. L’obiezione di Calderoli è che si è già votato in Veneto e in Lombardia, sei anni fa con un referendum… Così le altre Regioni vedrebbero decollare il Grande Nord, che, gestendo ben 23 materie oggi di competenza dello Stato, diventerebbe ancora più ricco trattenendo il «residuo fiscale» (cioè larga parte del gettito garantito dai residenti).

 

Obiezione lumbard: con la definizione dei Lep (Livelli essenziali di prestazione che assicurino pari condizioni ai cittadini da Nord a Sud) questo rischio non c’è. Ma la Corte dei Conti mette in guardia: la spesa pubblica farebbe un balzo, perché lo Stato sarebbe costretto a intervenire per evitare sperequazioni tra aree floride e depresse. E chi pagherebbe il salasso, visto che le tre Regioni più ricche, nel frattempo, si sarebbero tirate fuori?

 

Un partito romano-centrico come Fratelli d’Italia, con l’elettorato più filo-unitario, potrebbe stare a guardare? La risposta finora è stata di questo tenore: l’autonomia andrà avanti solo con il rafforzamento delle istituzioni centrali. In realtà, vista la tempistica, rischiamo che si cambi il telaio dell’auto prima ancora di sapere quale motore si monterà. In più c’è la questione Roma.

 

Come dimostra il dossier Calderoli, le 500 competenze che verrebbero trasferite alle Regioni che ne facciano richiesta (vera anarchia regionale) svuoterebbero la Capitale. Non è un problema di poltrone e privilegi ministeriali. Semmai di garanzie: solo con un monitoraggio centrale, ti accerti che il Paese vada tutto nella stessa direzione e con uguali diritti per i cittadini di ogni latitudine. Che fine ha fatto il disegno di legge costituzionale che rafforza i poteri di Roma, garantendo, più che la dignità, l’operatività di uno Stato che abbia una sola e non cento teste? Altrimenti non resta che il celebre sarcasmo del pittore Mino Maccari: «O Roma o Orte!».

 

Con questo numero termino la rubrica per un nuovo progetto professionale. Un caloroso grazie ai lettori, alla direzione e alla redazione de L’Espresso.