Oltre alle parole che fanno titoli sui giornali, il ministro e la Fifa dovrebbero impegnarsi a varare norme costrittive efficaci

Quando si registrano episodi di razzismo negli stadi, praticamente ogni settimana, a parole si indignano (quasi) tutti, e ci mancherebbe. Dal capo supremo del calcio mondiale Gianni Infantino al ministro dello Sport Andrea Abodi e giù per li rami ex atleti e allenatori, come è successo per i cori «sei uno zingaro» contro lo juventino Dusan Vlahovic domenica scorsa a Bergamo. «Sanzioni dure», «siano banditi i rei dagli spalti». Poi passano i giorni, il furore si placa, l’attenzione si sposta sul campo per le successive partite, la giustizia sportiva se la cava con uno schiaffo indolore, tipo squalifiche di curve che vengono poi sospese come nel caso della Juventus dopo i «buuu» contro l’interista Lukaku o della Lazio che, durante il derby con la Roma, annoverava tra i suoi “tifosi” un “Hitlerson” in maglietta biancazzurra, omaggiato da cori antisemiti, peraltro piuttosto usuali quando gioca la squadra di Claudio Lotito.

 

E questi sono esempi arrivati almeno a un giudizio quando decine di altri sfuggono per sordità di addetti che dovrebbero denunciarli, compiacenze concilianti se le intemperanze sono brevi, come se fossero la durata o l'intensità dei decibel a definire un reato. La «discriminazione territoriale», tradotto «razzismo», si esercita contro i giocatori di colore, gli slavi, i «terroni» (ne sa qualcosa il Napoli campione quando gioca al Nord).

 

Protetta, troppo spesso da un pensiero indulgente per cui gli spalti dovrebbero essere una zona franca, uno sfogatoio di passioni dove tutto o quasi è lecito perché all’uscita si torna alla vita reale dove si è più buoni. Dopo la pandemia gli stadi hanno ripreso a riempirsi e vi affluiscono famiglie con bambini. Non è raro vedere i più piccoli inveire e accompagnare i cori più beceri per eccitata imitazione sotto lo sguardo paternamente complice di genitori compiaciuti. Mentre una maggioranza silenziosa accetta supina i peggiori rigurgiti dell’odio ribollente scatenato da alcuni settori, sempre gli stessi.

 

All’opposto, una seconda teoria vuole che lo stadio sia uno specchio della società. Nella società c’è razzismo, dunque c’è dentro gli stadi, che ci vuoi fare? Non aiutano gli esempi che vengono dall’alto, il Salvini del selfie con il pregiudicato capo-ultrà del Milan, i dirigenti del club sotto ricatto dei tifosi più estremi. Più in generale un clima di ostilità nei confronti dei migranti, dei forestieri, che l'attuale governo contribuisce a seminare. Finisce allora che si lascia una supplenza a qualche singolo protagonista, il Mourinho che azzittisce la Sud scatenata contro lo “zingaro” Stankovic, alcuni calciatori che imploranti chiedono ai propri supporter di smetterla: non può essere affidata alla buona volontà di alcuni il contenimento di ignobili comportamenti.

 

Bisognerebbe concludere che il razzismo è una faccenda troppo seria per delegarla alla giustizia sportiva, legata alle commistioni e agli interessi con l'industria del calcio, mediaticamente così potente da influenzare i governi. E allora chi ha il potere decisionale a vario titolo, gli Infantino, gli Abodi, oltre che rilasciare dichiarazioni che fanno titolo dovrebbero impegnarsi a varare norme costrittive senza possibilità di interpretazioni. Negli stadi ci sono telecamere come in un “Truman show”. Non è così difficile ascoltare, identificare. E punire.