Lo sfarinamento dello scontro capitale-produzione ha impoverito il lavoro a favore dell’individuo

Fino alla fine degli anni Novanta il rapporto tra lo stipendio dei manager delle grandi imprese e un operaio era da 1 a 12 volte. Per tutti valeva la retribuzione di Vittorio Valletta, il numero uno della Fiat. Tale rapporto si è perso nella notte dei tempi. Oggi si va da 1 a più di 100 volte. Non si è trattato di un fenomeno soltanto italiano. Era così in Occidente, frutto del New Deal con il presidente Roosevelt. Un’impostazione che ha retto fino all’inconvertibilità del dollaro (15 agosto 1971). Da allora i think-tank americani hanno iniziato a elaborare una corrente di pensiero che smontava detta impostazione, esaltando il ruolo dei manager, in connessione al superamento dell’organizzazione tayloristica del lavoro. Ciò comportava la dissoluzione di tale rapporto, che tutelava il lavoro nella remunerazione dei fattori produttivi.

 

Sulla scia di questa corrente di pensiero si sono inseriti, alla fine degli anni Novanta, gli intendimenti politici dell’ex premier Margaret Thatcher, poi del presidente Ronald Reagan, sostenendo la prevalenza dell’individuo sulla società. Da allora, in un incessante crescendo si sono affermati l’individualismo, la vittoria del capitalismo finanziario e la sconfitta del movimento operaio. La fabbrica non era più il focus dello sviluppo economico, grazie all’informatizzazione dei processi produttivi, dovuta ad Internet e alle nuove tecnologie.

 

Dagli anni Novanta sono mutati i caratteri costitutivi dell’espansione economica in Occidente. In concomitanza con la globalizzazione e con la caduta dell‘Urss, le multinazionali e l’impetuosa crescita del terziario, per l’effetto del low cost, stanno dominando lo scenario mondiale.

 

Questo processo, schematicamente sintetizzato, ha comportato la segmentazione dei ruoli operativi nella produzione di beni e di servizi, favorendo la moltiplicazione delle forme di lavoro e l’emarginazione della contrattazione collettiva.

 

L’organizzazione delle attività economiche, facendo leva sullo sfarinamento dello scontro capitale-forze produttive ha impoverito il lavoro, in quanto tale, a favore dell’individuo che, in base alle sue capacità individuali, avrebbe dovuto trovare un’adeguata collocazione nella società.

 

Le cose sono andate così solo per i manager delle grandi imprese. Oggi, a causa di questo processo e per effetto dell’inflazione, torna di attualità in Occidente (basti pensare agli aumenti salariali richiesti in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra e in America), l’impoverimento delle retribuzioni, che ha fatto leva sull’estensione in mille forme del precariato.

 

Il governo, mostrando preoccupazione per il maxi-costo del paniere della spesa, ha cercato, con il decreto del 1° Maggio, di allentare provvisoriamente la tensione con la riduzione temporanea di 4 punti del cuneo fiscale destinata ai lavoratori con retribuzione lorde fino a 35 mila euro all’anno, peggiorando con i voucher e la flessibilità dei contratti a termine le condizioni di lavoro.

 

Stante così le cose, bisognerebbe che dal basso fosse aperto un serrato confronto con i padroni del vapore per mettere in discussione la scandalosa disuguaglianza economica, che non trova giustificazione nella meritocrazia, tra chi ha le leve del comando e chi esegue (Valletta docet).