Per spiegare i ritardi sul Piano di resilienza l’esecutivo ricorre alla solita propaganda populista

Il Pnrr o della comunicazione mancata ed errata del governo Meloni. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è diventato, in età pandemica, una sorta di parola passepartout del mondo politico. Persino un mantra, utilizzato spesso - e anche a sproposito - in un’accezione salvifica, come se si trattasse della panacea per risolvere in un colpo solo un gran numero di problematiche del sistema-Italia. Quelle criticità che, invece, non si cancellano con un tratto di penna, e stanno infatti presentando il conto. Al punto - come dicono gli alert provenienti da più parti - da rendere molto difficoltosa l’implementazione dei progetti, minando così lo stesso disegno di fondo del Piano.

 

In queste settimane, dopo le dichiarazioni di facile ottimismo dei mesi scorsi, si sono improvvisamente moltiplicati gli allarmismi da parte dell’esecutivo. Una batteria - anzi, una vera e propria contraerea - di dichiarazioni dietro cui si intravedono un problema di forma e uno di sostanza. La sostanza, assai grave, riguarda il vaso di Pandora - scoperchiato proprio dai comunicati dei ministri di questo governo - delle numerose inadeguatezze nell’implementare i progetti previsti e nello spendere quanto impegnato dalle istituzioni comunitarie a nostro favore. La macchina pubblica e la burocrazia italiane - al netto dell’impegno di tanti funzionari di valore - non rispondono affatto come dovrebbero (e come avviene altrove), e sono caratterizzate da svariati deficit (anche di competenze) e plurime sacche di inefficienza. E lo conferma il fatto che la spesa pubblica arriva a circa 980 miliardi di euro annui, ma la crescita si rivela sempre molto (troppo) contenuta.

 

La consistenza delle risorse destinate dall’Europa al nostro Paese si spiega difatti - a dispetto dell’autonarrazione trionfalistica del governo Conte 2 sulle proprie capacità di negoziazione - con il fatto che a Bruxelles si considera l’Italia come il “grande malato” del continente, soggetto da più di un ventennio a un’interminabile crisi economica, e bisognoso, quindi, di una poderosa cura ricostituente somministrata tramite il Recovery Fund. Ma che viene vanificata, per l’appunto, dalle tante difficoltà strutturali presenti a vari livelli. Rimanda sempre al problema di sostanza l’approccio seguito finora, che ha condotto ad accumulare una sommatoria di progetti nell’assenza di una vision complessiva. Una carenza a cui non sopperisce una catena di comando piramidale e ristrettissima ispirata al format accentratore tipico dello «stile pigliatutto» della premier. Né, men che meno - e qui siamo al problema di forma - una strategia comunicativa che vede riproporsi i soliti riflessi condizionati della propaganda populista, tra vittimismo e inopinato scaricabarile delle responsabilità sui predecessori (Mario Draghi compreso). La forma - che è anch’essa sostanza, sotto vari profili - ha dunque ribadito la bulimia e l’andamento altalenante e contraddittorio che contraddistingue la comunicazione dell’esecutivo Meloni.

 

Insomma, niente di nuovo sotto il sole, ahinoi. E sembra malauguratamente proprio che questo Pnrr «non s’ha da fare». O, per dirla meglio, che non si riesce e non si sa fare. Così, anziché costituire un’autentica priorità di agenda, rischia seriamente di tramutarsi in una (ennesima) occasione perduta. E dalle conseguenze drammatiche.