Il rito delle risposte del premier alle interrogazioni urgenti è soporifero. Un’idea per cambiarlo

Question time, diventi il match premier – leader d’opposizione
È durato 78 minuti, ma se ne salvano sei. Sono quelli del duello Meloni-Schlein. Non tanto per il debutto istituzionale della neosegretaria Pd – facilitato dagli autogol di Conte e di Calenda, che hanno scelto di non intervenire – quanto per l’efficacia con cui se le sono cantate. È la dimostrazione di come il «premier question time», la formula con cui il presidente del Consiglio risponde alle interrogazioni parlamentari su questioni urgenti, andrebbe rivisto e corretto con indubbio beneficio della platea. Introdotto nel 1997, copiandolo dal più pragmatico modello inglese, è ben presto diventato un «a domanda risponde» all’italiana. La routine è fatta di ministri che replicano davanti a banchi spesso vuoti. Eppure, la Camera prevede la presenza del premier due volte al mese, il Senato una volta ogni due mesi. Ma non esiste alcun obbligo, così resta di frequente lettera morta.

 

Berlusconi i question time li ha snobbati. Enrico Letta tentò la regolarità, Renzi e Conte non si sono sottratti. Anche Draghi ha avuto il suo battesimo. Ma tutti casi rari e appesantiti da un canovaccio che porta, nel Paese degli oratori in via di estinzione, tanto gli interroganti quanto il premier di turno a leggere l’appuntino preparato dallo staff. Lo spettacolo è soporifero. La regola prevede un minuto per la domanda, tre per la risposta e due per la controreplica. Il risultato dell’altro giorno ha portato a uno sforamento totale: quasi un’ora e mezza in diretta televisiva, altro che Westminster! La fiammata è giunta solo al momento delle sciabolate Meloni-Schlein. Allora perché non rivedere la formula e concentrare il fuoco tra i capi del governo e dell’opposizione? Obiezione: Roma non è Londra e di capi delle minoranze ce ne sono almeno tre. Rimedio: alla peggio assisteremmo a un quartetto. Ma soprattutto il premier dovrebbe rispondere a braccio, all’inglese, costringendo gli sfidanti a non leggiucchiare tristi fogliettini. Allora sì che si terrebbe incollata la platea alla diretta tv, non costringendola a surrogati del talk show dove lo scontro sa di finto e copre i fatti.

 

Delegazioni internazionali, rissa e paralisi
Nessun gettone in più, per carità. Ma presidenze, uffici, staff, viaggi: tutto ciò che nel Palazzo nessuno mai disdegna. Stavolta la posta in palio sono le nomine delle delegazioni internazionali. Si tratta delle rappresentanze parlamentari presso i principali organismi europei o affini, rinnovate a ogni legislatura. Ma, nonostante i cinque mesi dalle elezioni, le principali formazioni sono in prorogatio. Con l’eccezione del drappello per l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (9 senatori, 9 deputati e altrettanti supplenti), la maggioranza non riesce a mettersi d’accordo sulla spartizione. Assaltati i posti di governo e sottogoverno, commissioni e altro, non resta che l’ultimo rifugio di peones e insoddisfatti. Ed è battaglia. Così la delegazione presso l’Assemblea parlamentare dell’Osce, con i suoi due presidenti scelti tra 10 senatori e 7 deputati, è ancora in proroga. Lo stesso per l’Assemblea parlamentare presso la Nato (10 senatori, 12 deputati), eppure posto strategico data la guerra in Ucraina. Sorte uguale per la delegazione presso l’Ince (Iniziativa centro-europea) con 5 senatori e 5 deputati. Vengo anch’io, no tu no.