La “flat tax”, il taglio delle detrazioni, la cancellazione dell’Irap e le altre proposte non creano un sistema equo

In un clima di persistente inflazione, che riduce il potere di acquisto dei cittadini, si inserisce la «riforma copernicana del fisco», lanciata dalla Presidente Meloni, tesa a riequilibrare la «disuguaglianza tributaria».

 

Un’affermazione forte, presumibilmente vana, non confortata dalla possibilità di attingere alle casse dello Stato, senza ridurre i trasferimenti per i servizi sociali, in primo luogo quelli della sanità e della scuola, erosi dall’inflazione; né tanto meno da maggiori entrate derivanti da una lotta all’evasione fiscale, dato che niente si dice sull’incrociare i dati per radiografare il patrimonio e il reddito dei contribuenti.

 

Il concordato preventivo con le Pmi in un clima di grave incertezza economica, per il timore di pandemie, della guerra, dell’inflazione e della deglobalizzazione, servirà soltanto a congelare la volontà di intrapresa di queste stesse imprese più che risolvere contenziosi o illegalità fiscali. Una scelta che cozza con la dinamica degli “animal spirits” di Keynes.

 

La proposta di cancellare l’Irap (17,9 mld nel 2022 destinati alla sanità), senza l’indicazione di risorse alternative rischia di indebolire ulteriormente i trasferimenti per la sanità, con l’aggravarsi degli squilibri sociali tra Nord e Sud. L’indicazione di tre aliquote, troppo poche da applicare su tre scaglioni, per giungere ad un’aliquota piatta in cinque anni, sull’esempio dei paesi ex comunisti, non di quelli fondatori della democrazia, favorisce i redditi crescenti, a danno di quelli più bassi.

 

Il taglio delle detrazioni ha «effetti sensibili soltanto sui livelli di reddito piuttosto bassi» (Sergio Steve). Colpisce molto meno i redditi più elevati. Paga meno chi ha di più, si penalizza chi non ha. Siamo davanti ad una redistribuzione fiscale rovesciata. La ricerca dell’“uguaglianza tributaria” tracolla quando si accresce il ricorso alla cedolare secca, come quella sugli affitti commerciali, si riducono le ritenute sui redditi di lavoro autonomo prodotti da professionisti e si introduce la neutralità fiscale per le aggregazioni professionali.

 

La flax tax e la cedolare secca sono il substrato della riforma fiscale a strisce. Esaltano la corporazione di chi paga l’Irpef in base alla dichiarazione, relegando a portatori di acqua quelli che si vedono trattenere le imposte al momento in cui riscuotono lo stipendio o la pensione.

 

Criticabile appare poi la proposta, informalmente indicata, di ridurre l’Ires dal 24% al 15% per favorire gli investimenti e l’occupazione stabile. Si rovescia la logica delle scelte imprenditoriali. Da che mondo è mondo, chi fa impresa è interessato a sapere ex ante gli incentivi, i fattori in grado di motivare l’azione delle imprese. È la molla dell’incentivo che sostiene la volontà di investire e di assumere, non certo quella di ridurre l’Ires.

 

La storia della legge Sabatini del 1968 e quella della 4.0 lo attestano con indubitabile chiarezza. Il vantaggio ex post, dato dall’Ires più bassa, non facilita niente, ha solo il sapore di una regalia utilizzabile a scadenza, che aumenta l’utile da distribuire ai soci al momento più opportuno. Nulla più.