C’è un legame storico tra devianza dallo status quo e patologizzazione. Perché il dolore è una risposta all’ingiustizia per chi vuole un mondo migliore. Ma per elaborarlo servono spazi comuni di condivisione

Il 3 gennaio 1889 Friedrich Nietzsche scende dal suo appartamento in via Carlo Alberto a Torino, probabilmente per andare alle poste, e, secondo la ricostruzione dei fatti, assiste alla scena di un cocchiere che frusta a sangue un cavallo. Il filosofo salta sulla carrozza e getta le braccia attorno al collo del cavallo, singhiozzando. Subito collassa e viene riportato a casa, dove giace immobile e in silenzio per due giorni finché non mormora: «Madre, sono pazzo». Viene poi ricoverato nella clinica psichiatrica di Basilea.

 

L’aneddoto mi ricorda quello raccontatomi da Bonnabella Reyes, nativa canadese a cui è stata diagnosticata la schizofrenia per il suo rapporto con la Terra e la reazione nel sentirla morire sotto i piedi. La diagnosi di Reyes nelle comunità indigene è estremamente comune, riuscire a sfuggire dal ricovero forzato è meno comune.

Chi osserva è continuamente soggetto a violente epifanie, ingestibili individualmente, elaborabili solo collettivamente. La salute mentale dei ribelli è una cosa che viene discussa troppo poco e, tuttavia, c’è un legame storico tra chi devia dallo status quo e la patologizzazione. La maggior parte delle persone accetta l’inaccettabile, ma non lo gradisce: alcuni si ribellano apertamente; altri protestano attraverso sintomi fisici e mentali; alcuni fuggono verso una realtà diversa.

 

Jennifer Mullan, esperta di psicoterapia decoloniale, dice che la maggior parte dei ribelli sono vittime di gaslighting culturale. Parte del fenomeno sono affermazioni reiterate socialmente, ma basate sulla menzogna («la legge è uguale per tutti»), sull’inganno («il lavoro duro paga»), sulla minaccia o sulla negazione di un’esperienza vissuta, come nel caso della violenza di genere, sistematicamente confutata.

 

Veniamo educati a ignorare quello che sentiamo e osserviamo, soprattutto a gestire la reazione emotiva violenta che questo ci provoca. Io credo che la rabbia e la depressione siano risposte normali all’ingiustizia e alla sofferenza che ci circonda: alienarci per non percepirle significa violentare ciò che siamo. Lo sguardo analitico sul reale, quello che riconosce le connessioni tra l’universo e le creature, viene dipinto come frutto di chiaroveggenza o di psicosi.

 

Nietzsche che sviene per la violenza contro un cavallo era in delirio, sull’orlo di un crollo, mentre è normalissimo assistere a cavalli stramazzati e rimanere impassibili, forse addirittura goderne. La letteratura decoloniale insegna che la psicoterapia spesso, in sistemi di oppressione, funziona come uno strumento di gaslighting culturale.

 

Ho già scritto su queste pagine di come per sopravvivere su un pianeta al collasso bisogna decidere con chi accordarsi e da cosa dissociarsi. Dopo la morte di decine di migranti al largo di Cutro, si è parlato di tutto tranne che dell’importanza di avere un luogo fisico per processare collettivamente. La nostra salute mentale è intrinsecamente politica e lo sono gli spazi di elaborazione: non dobbiamo anestetizzarci rispetto al dolore che proviamo, così come non dobbiamo minimizzare la nostra rabbia, né soffocare i singhiozzi né zittire chi pretende un mondo migliore.

La necessità di creare luoghi in cui esistere, in cui poter portare sé stessi, non è banale. Sabato scorso, la parte abbandonata da dieci anni della stazione Prenestina a Roma, di proprietà della Rete ferroviaria italiana, è stata occupata dalla Laboratoria ecologista autogestita Berta Cáceres. Se le amministrazioni privatizzano e sgomberano, dove sono i luoghi per il lutto e la speranza radicale?