Il caso dell’anarchico costringe a una riflessione sullo strumento del carcere duro. Perché è bastata la richiesta del Pg per equiparare l’uomo a un capo di una struttura stragista

Che lezioni si possono ricavare dal lungo sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo di Alfredo Cospito, esponente della rete anarchica informale, responsabile di gravi reati di violenza? La prima è la superficialità con cui un detenuto, da nove anni nel circuito dell’Alta sicurezza, è stato spostato nel regime riservato ai componenti delle organizzazioni criminali.

 

È bastata la richiesta di una Procura generale per mettere in moto un meccanismo che lo ha equiparato a un capo di una struttura stragista con una catena di comando rigida e inflessibile. Con Cospito al 41bis si è fatto risorgere il fantasma del terrorismo e si è arrivati al ragguardevole numero di 738 rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza (il 40 per cento appartenenti alla Camorra, Cosa Nostra si attesta sul 28 e la Ndrangheta al 22).

 

La seconda lezione: la decisione assunta con la legge 279 del 2002 di rendere permanente il regime speciale – che in precedenza era confermato ogni anno con una discussione in Parlamento – dovrebbe obbligare a una verifica rigorosa delle applicazioni concrete affinché siano funzionali alla motivazione originaria di rompere la catena di comando e degli specifici trattamenti previsti da circolari o prassi, affinché non siano contrari allo Stato di diritto. Le limitazioni circa il vitto, il possesso di libri e giornali, l’ascolto di radio e musica, l’esposizione delle foto di parenti, la presenza di agenti nei colloqui con il medico, rappresentano pure vessazioni e si avvicinano pericolosamente al confine della tortura.

 

La terza lezione viene dalla scelta di Cospito di ricorrere allo strumento classico della non violenza, lo sciopero della fame, rendendo protagonista della vicenda il suo corpo, centrale nella detenzione. Il corpo privato della libertà ma anche di altri diritti fondamentali a cominciare da quello della sessualità, il corpo troppo spesso percosso e segnato dall’autolesionismo, il corpo ridotto a contenitore di psicofarmaci: sono tante facce della materialità della galera. Quel corpo è l’unica cosa di cui il prigioniero può davvero disporre.

 

Di fronte a questo scenario, il governo ha immediatamente innalzato la bandiera dell’intransigenza e esplicitato l’accusa di ricatto allo Stato, bloccando di fatto ogni possibile dialogo e ricerca di soluzione. È incredibile tanta iattanza unita a pochezza, specie guardando al passato: nel 1989 di fronte a uno sciopero della fame compiuto da Sergio Segio, leader di Prima Linea, contro il rifiuto del magistrato di sorveglianza di Torino di concedere il permesso di lavoro esterno presso il Gruppo Abele, non solo si mobilitarono tanti esponenti politici e intellettuali, ma il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli incontrò una rappresentanza del Comitato di sostegno, tra cui Padre Davide Turoldo e Luigi Ciotti.

 

La morte di Cospito farebbe assomigliare l’Italia alla Turchia, dove nel 2020 morirono l’avvocata curda Ebru Timtik e il musicista Ibrahim Gokcek, e assisteremmo a una sconfitta del senso di umanità. Non c’è però da stupirsi, Giorgia Meloni e il sottosegretario Andrea Delmastro sono i primi firmatari di una proposta di legge di stravolgimento dell’art. 27 della Costituzione sui fondamenti della pena come pensati da Cesare Beccaria e da Aldo Moro.