Il nome di Fratelli d’Italia è Francesco Rocca, mentre è stato “sacrificato” Fabio Rampelli. Il problema ha conseguenze per tutto il Paese

Appena indossati i panni di presidente del Consiglio, Giorgia Meloni si è attenuta a una sorta di austerità comunicativa (a partire dalla scelta del look). Uno strappo rispetto alla consuetudine di quel neopopulismo che è anche stile comunicativo e si colloca agli antipodi della sobrietà. Ma il basic instinct pare essersi preso ben presto la rivincita in occasione della visita lampo al contingente militare italiano in Iraq dell’antivigilia di Natale, quando la premier ha messo una tuta mimetica. Un mimetismo che ha fatto subito venire in mente la prassi salviniana e che segnala come sia difficile dismettere abitudini e strategie di comunicazione anche quando ci si deve infilare nelle vesti istituzionali. E che può pure essere guardato come un’allegoria di un “travestimento” che, invece, non funziona, e rimanda anch’esso a una caratteristica di lungo periodo delle destre nazionali. Vale a dire la mancanza di una classe dirigente di qualità nei territori. Una questione annosa, per l’appunto, certificata anche - seppure con vari distinguo, come naturale - da due degli intellettuali di riferimento della destra italiana, Pietrangelo Buttafuoco e Giordano Bruno Guerri.

 

La rappresentazione di un’approssimazione di proporzioni quasi sistemiche la si è vista, in modo palese e innegabile, nell’iter alquanto pasticciato della legge finanziaria. E la carenza di una classe dirigente “in-house” spendibile nelle competizioni locali chiave è un aspetto che viene riconfermato adesso dalla scelta del candidato governatore del Lazio, andata a cadere su Francesco Rocca, presidente uscente della Croce Rossa Italiana. Al punto da provocare qualche tensione con la corrente di Fabio Rampelli, il romanissimo vicepresidente della Camera, dominus laziale della destra postmissina (nelle sue varie metamorfosi), destinato alla condizione di eterno secondo mai prescelto e sempre “sacrificato”. E, dunque, a meno di pensare a una sfiducia “ontologica” della leader di Fratelli d’Italia nei confronti di molti dei suoi dirigenti di punta a livello locale (cosa altamente improbabile), il nodo è precisamente quello della percezione anche da parte del vertice di una diffusa impreparazione e inadeguatezza delle proprie élites territoriali. Tanto più se si considera che proprio Meloni aveva suonato la carica della rivincita della politica, dicendosi pubblicamente sempre orgogliosa e convinta della militanza di partito come forma di selezione delle classi dirigenti.

 

Con la celebrazione del primato della politica rivendicato contro la «tecnocrazia» - che, pure, è stata prodiga di suggerimenti e buoni consigli nell’ordinata fase di transizione dal governo Draghi a quello Meloni - il destracentro adotta, come già ampiamente osservato in tante occasioni, quello che è sostanzialmente un puro format comunicativo. Contrariamente ai proclami, nella formazione dell’esecutivo i partiti dell’alleanza sono, infatti, andati spasmodicamente alla ricerca di tecnici più o meno di area, ottenendo però pochi risultati significativi o tangibili.

 

Per poi aprire il fuoco contro i tecnici ministeriali - secondo il collaudato modello propagandistico del «doppio registro» - non volendosi assumere la responsabilità di una manovra di bilancio piena di inciampi a dispetto delle promesse iniziali di innovazione e rigore. E ora assistiamo, di nuovo all’antitesi delle roboanti affermazioni di poco tempo fa, all’eterno ritorno del candidato civico per cercare di ovviare alla difficoltà di dotarsi di gruppi dirigenti territoriali all’altezza delle sfide e dei larghi consensi di cui godono oggi le destre. E, come evidente, non si tratta di un problema esclusivamente loro, ma di un fattore di debolezza che si proietta sull’intero sistema-Paese.