La modifica Costituzionale è una proposta identitaria per l’elettorato di Destra. Ma anche un modo per stabilire l’egemonia sugli alleati

Un eterno ritorno. Il tema del presidenzialismo riaffiora periodicamente lungo la storia politico-costituzionale del Novecento e, accanto alle dotte dissertazioni di dottrina, ha rappresentato per alcuni un modo per “sublimare” anche qualche inconfessabile manifestazione di antiparlamentarismo.

 

Finora, per dirla con Shakespeare, si è trattato di «tanto rumore per nulla». Adesso, invece, potrebbero esserci le condizioni affinché si converta in una frattura reale e in un conflitto politico esplosivo. Perché Giorgia Meloni ha deciso di farne, al tempo stesso, uno strumento identitario-comunicativo e un’«infrastruttura istituzionale» da abbinare alla sua idea di partito pigliatutto, cavalcando i sondaggi che indicano un’inclinazione dell’opinione pubblica in materia.

 

Il presidenzialismo ha una funzione identitaria sostanzialmente “a costo zero”, come gran parte delle proposte della premier alle prese con scarse risorse finanziarie. E, dunque, è un palese messaggio di tipo confermativo indirizzato all’elettorato di destra-destra più fedele. Il consueto «doppio registro» tipico delle destre neopopuliste (e anche, per certi versi, un’arma di distrazione di massa). Ma il presidenzialismo costituisce, altresì, un’infrastruttura istituzionale per un ulteriore target rilevante. In questo caso, sotto il profilo dell’organizzazione e della strutturazione partitica, dato che Meloni coltiva, difatti, il paradigma del doppio ruolo di capo di partito e di governo. Il suo obiettivo, verosimilmente, è quello di rifondare l’offerta e il sistema dei partiti italiani, egemonizzando con una formazione unitaria quello che chiama da qualche tempo a questa parte, all’insegna di un revisionismo terminologico e lessicale, il «campo conservatore».

 

Un progetto rispetto a cui incontra ovvie resistenze da parte di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, e che prevede il fine secondario di riuscire quanto meno a stoppare la loro federazione. Il modello a cui la premier aspira è quello del “partito pigliatutto”, la “magnifica ossessione” pure di alcuni dei suoi predecessori a palazzo Chigi (e dintorni). E che si è tuttavia infranta contro la velocizzazione della politica postmoderna e la volatilità dell’elettorato. Il presidenzialismo si presenta, pertanto, come una ricetta volta proprio a scongiurare il rischio della leadership intermittente. I poteri maggiorati del leader si traducono anche in un rafforzamento del suo partito, il quale occupa tutto lo spazio politico e comunicativo possibile nella logica del gioco di sponda. Una maniera per stabilizzare e fissare l’elevato consenso attuale di FdI, tenendolo al riparo dal “pericolo della discontinuità”, sviluppandone appunto ulteriormente la piattaforma di partito pigliatutto, e facendone il partito-ombrello unitario o il partito di raccolta dell’intero destracentro.

 

Un’operazione evidentemente facilitata dal vuoto di iniziativa di un’opposizione che, anziché scegliere la strada della contrapposizione ideologica, rischiando di apparire pregiudiziale, dovrebbe innanzitutto chiedere a Meloni di “vedere le carte”. Ovvero di discutere su una proposta chiara: a cominciare dalla formula (presidenzialista, semi-presidenzialista o elezione diretta del primo ministro?), e con un’indicazione precisa di tutti i controlli e i contrappesi.