Da Confindustria al centrodestra, in tempi di vacche magre si riscoprono tutti keynesiani e parlano di aiuti e tetto ai prezzi pagato facendo deficit. Passata l’emergenza, torneranno difensori del libero mercato (per loro)

Le bollette astronomiche hanno fatto riesplodere le contraddizioni dei liberisti a corrente alterna di casa nostra, sempre pronti a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite. La loro fede in Adam Smith e nella “mano invisibile del mercato” capace di creare l’equilibrio economico generale vacilla davanti al prezzo del gas schizzato da venti a oltre trecento euro. Dunque eccoli riscoprirsi seguaci di John Maynard Keynes per reclamare disperati l’intervento di quello Stato tanto bistrattato come era già successo, recentemente, per i sussidi nei momenti più drammatici della pandemia. Sia chiaro: la visibilissima mano pubblica è necessaria in questa situazione emergenziale estrema, tanto per le famiglie quanto per le imprese. Sarebbe bene però ricordarsi delle virtù dell’economia mista anche nei tempi delle vacche grasse quando volano guadagni e indici di Borsa.

 

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, tra i primi a reclamare un decreto del governo per aiutare le imprese in difficoltà, potrebbe già da subito spendere qualche parola sulle aziende gonfiate dagli extra-profitti che avrebbero dovuto versare in totale 10,5 miliardi di euro in seguito al decreto Aiuti bis, hanno dato invece poco più di un miliardo e hanno fatto ricorso all’Autorità per l’energia e al Tar: udienza prevista l’8 novembre quindi fuori tempo massimo perché, in caso di sentenza favorevole all’esecutivo, quel denaro possa essere usato per lenire i dolori dei consumatori che si sono visti decuplicare i costi. Ora, non a novembre.

 

Ma su questo Bonomi tace. Come tace Silvio Berlusconi, per la verità un liberista sui generis se ha costruito le sue immense fortune grazie a una concessione di Stato e ora, dopo aver contribuito a far cadere Mario Draghi, lo implora di intervenire per correggere le storture di un mercato che si è dimenticato la sua magica mano chissà dove. Analogamente Matteo Salvini, campione se ce n’è uno tra i fautori del primato del privato sul pubblico, sempre dalla parte delle imprese e delle partite Iva contro lo Stato vessatore iniquo e la Roma ladrona, impegnato a perorare la causa di una spesa in deficit da 30 miliardi. E dunque a scaricare questi ulteriori costi sulle future generazioni già gravate da un debito pubblico mostruoso. Ma, si sa, le elezioni sono tra meno di un mese e da mungere, assieme alle all’erario, c’è il consenso nelle urne.

 

Almeno Giorgia Meloni non chiede di sforare il budget, ben conscia che, se toccherà a lei la poltrona di palazzo Chigi come è possibile, si troverà a sedere su una montagna di deficit difficilmente governabile. Però reclama un tetto comune al prezzo del gas, chiamando in causa quell’Europa da sempre considerata matrigna da lei e dai sovranisti suoi alleati nel Continente.

 

Nel bailamme della tempesta perfetta tra post-Covid, guerra in Ucraina, inflazione galoppante e maxi-bollette, la prima vittima è la coerenza. Sulle macerie della quale riemerge la figura del buon vecchio Keynes, sempre riesumato dal cassetto in tempi di vacche magre per essere prontamente riposto quando il peggio è passato. Ma nemmeno lui può fare i miracoli se viene chiamato in causa quando c’è da pagare e viene dimenticato quando c’è da riscuotere.