Il politico ed economista radicale Ernesto Rossi aveva teorizzato un “esercito del lavoro”. E le sue suggestioni dovrebbero essere recepite oggi

Occorre uno sforzo smisurato per non arrendersi a una campagna elettorale senza senso e offrire contributi di riflessione. Non ci si può arrendere a una polemica strumentale sul reddito di cittadinanza che può trovare invece una soluzione attingendo al giacimento di idee preziose che la storia politica ci offre, con carica utopica e concrete suggestioni, e soprattutto con soluzioni credibili e attuali.

 

Ernesto Rossi, politico ed economista radicale, dopo il confino a Ventotene, dove scrisse con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni il famoso Manifesto per l’Europa si dedicò alla costruzione di un programma per la Repubblica. Nel 1946 pubblicò un saggio dal titolo evocativo: Abolire la miseria (Casa Editrice La Fiaccola di Milano, poi ripubblicato da Laterza a cura di Paolo Sylos Labini).

 

In un vero e proprio programma dettagliato, veniva ipotizzata la costruzione di un «esercito del lavoro». Una proposta fondata su un’etica del lavoro e su un modello non assistenzialista che, per certi versi, si può anche considerare anticipatoria del servizio civile e della possibilità alternativa al servizio militare. Alla base vi era e, pur nelle mutate caratteristiche, vi è una cultura della solidarietà sociale, della cittadinanza attiva e dell’apporto che i singoli, in determinate circostanze, possono e talvolta debbono portare al benessere collettivo, anche in termini di lavoro per la comunità.

 

La proposta e la carica ideale e utopica di Ernesto Rossi possono tornare ad essere una suggestione concreta. Certo da attualizzare, assicurando criteri e diritti, in modo che non rischi di sfociare in una sorta di «lavoro obbligatorio» o di lavoro surrettiziamente gratuito e senza turbare o alterare le normali regole del mercato del lavoro. Derive già presenti in molte forme dei lavori di pubblica utilità.

 

È una sfida per economisti che vogliano cimentarsi su un terreno pragmatico.

 

Perché non applicare la ricetta di Rossi per un Servizio civile del lavoro esteso e mirato ai profughi e ai rifugiati, oltre che ai giovani italiani? È facile intuirne i risvolti positivi: sarebbe più facile l’integrazione sociale e la comprensione umana se a queste persone venisse proposto di partecipare a un esercito del lavoro per compiere interventi di manutenzione ambientale nei boschi, di pulizia delle rive dei fiumi e delle coste del mare. Lavori di ripristino delle zone degradate o abbandonate. Nelle zone montane sarebbe urgente un lavoro massiccio per arginare l’avanzata del bosco, ripulire i sentieri e recuperare terreni per l’agricoltura e i pascoli.

 

Anche riguardo al patrimonio artistico e culturale si potrebbero prevedere interventi di manutenzione e salvaguardia di situazioni degradate o a rischio.

 

I soggetti coinvolti potrebbero trarne beneficio, attraverso specifici momenti formativi e di apprendimento linguistico, oltre che di adeguata collocazione abitativa.

 

Ne trarrebbe vantaggio l’economia, l’ambiente, il territorio, la qualità della vita sociale e la sicurezza dei cittadini. Un ulteriore beneficio, forse anche maggiore, sarebbe di ordine morale, civile e culturale. Perché, come scriveva Ernesto Rossi, «il servizio nell’esercito del lavoro farebbe sentire ad ogni individuo in modo immediato i rapporti di solidarietà che lo avvincono agli altri membri del consorzio civile». Una follia? Sarebbe ora.