Giorni interi a discutere di liste, posti blindati, paracadute. E poco o nulla sui temi davvero rilevanti come il posizionamento internazionale dei vari partiti. Eppure oggi come non mai la politica estera influenza le nostre vite

Ma in fondo che ci importa della sarabanda sulle candidature che per giorni ha tenuto banco come se fosse il sale della politica? Che ci importa se la presidente uscente del Senato, la veneta Elisabetta Casellati, finisce in Basilicata o se Fratoianni rinuncia al posto nell’uninominale “sicuro”? Che ci importa dell’ira degli esclusi o dei duelli tra i big? Qui non si conosce o quasi nessuna delle idee della stragrande maggioranza degli aspiranti onorevoli e senatori su questioni chiave del nostro futuro che eccedono il giardinetto di casa ma che ci chiamano pesantemente in causa. Succede da tempo, è vero, da quando i destini personali, la rincorsa a uno stipendio sicuro o alla pensione sono l’essenza e non la conseguenza di un impegno che dovrebbe contemplare una visione del mondo, una gerarchia delle necessità, un progetto di Paese.

 

Esecrabile in tempi normali, la postura diventa esiziale in questo tempi straordinari in cui la guerra in Ucraina sta sconvolgendo la scala delle priorità perché nel pianeta interconnesso nulla è circoscrivibile al luogo in cui avviene. E allora sarebbe interessante essere informati su cosa pensano i candidati delle sfide epocali che ci attendono. Come si collocano rispetto al disegno egemonico della Russia di Putin e la domanda è rivolta soprattutto alla destra dello schieramento i cui leader, al netto di prese di distanza della ventitreesima ora obbligate dalle circostanze, avevano manifestato condiscendenza nei confronti del Cremlino. Condividendo di fatto posizioni sovraniste, un certo disprezzo verso le democrazie liberali considerate «obsolete» per usare una definizione dello zar Vladimir quando era in auge e stampato in effigie sulle t-shirt. Il confitto in Europa non ridefinisce solo i confini ma anche i destini della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta sinora. E in questo caso sia la destra sia la sinistra dovrebbero illuminarci circa le rispettive ricette su come regolamentarla, su come salvare i diritti minacciati dal mercato del lavoro globale dunque impazzito.

 

E c’è di più. È sempre la guerra che raffina e ridefinisce il grande dualismo tra democrazie e democrature e la scelta di campo, invece che ovvia, sconta i troppi ammiccamenti verso sistemi illiberali e autoritari che stanno nel perimetro delle alleanze delle Meloni come dei Salvini. Di fatto, è l’ideologia che si riprende il suo spazio quando per un trentennio era scomparsa a favore dell’unica prassi che sembrava possibile: il capitalismo. Per questo, accanto a temi naturalmente importanti come l’economia, dovrebbe farsi largo anche una profonda discussione su quale è il modello di vita, stretto parente del modello istituzionale a cui facciamo riferimento, dei valori che vogliamo difendere e accanto a chi.

 

Quanto manca, insomma, a una campagna elettorale dimentica di tutte queste sfide e invece concentrata sulla battuta del momento, su una personalizzazione da cortile che guarda i destini personali quando in gioco la posta stavolta è assai più alta. Oltre ai contenitori, alle facce da mettere sui manifesti per la propaganda, sarebbe ora di spiegare i contenuti circa la Cenerentola dei nostri dibattiti: la politica estera. Mai come stavolta la politica estera è molto, molto interna ai nostri interessi vitali.