Tutti gli occhi sono puntati sulle contraddizioni del centrosinistra, ma dall’altra parte le cose non vanno meglio. E non si capisce come possano convivere lo statalismo di Meloni con il federalismo di Salvini (per non parlare delle varie flat tax)

La sinistra ha proverbialmente problemi a tenere insieme tutte le sue anime tanto variegate. Certo. Ma la destra... La destra vuole dare l’impressione di marciare unita come una falange fino alla presa di un potere che i sondaggi le assegnano senz’altro, vara un programma in quindici punti sufficientemente vago e ambiguo per nascondere sotto un tappeto di presunta armonia le differenze macroscopiche generate dal dna delle formazioni che la compongono. Lo slogan sembra essere: vinciamo insieme e poi si vedrà. Ed è facile pronosticare una corrispondenza d’amorosi sensi di breve durata. A meno che qualcuno non rinneghi se stesso, il proprio passato. E governi insomma con le idee altrui, considerando il peso che i diversi partiti avranno dopo lo spoglio delle urne.

 

Non sono d’accordo, anzitutto, sui principi basilari, sulle regole del gioco, le riforme istituzionali. Fratelli d’Italia, forte della sua tradizione statalista, punta a rafforzare Roma con un presidenzialismo di stampo francese. La Lega, dopo l’ubriacatura da partito nazionale non sufficientemente smaltita nel Centro-Sud, ripropone con forza l’autonomia differenziata a tutto vantaggio delle regioni del Nord. Due modelli in teoria compatibili, assai meno nella pratica e basta guardare ai modelli stranieri che hanno assunto il presidenzialismo sfociando in una robusta centralizzazione dei poteri. L’ingegneria costituzionale sarebbe tanto più ostica nell’Italia delle marcate differenze tra settentrione e meridione. C’è da capire come Giorgia Meloni potrebbe spiegare a un suo tradizionale bacino di consenso, il Sud, la scelta di appoggiare quello che risulterebbe, a opera compiuta, un federalismo dei ricchi.

 

Ma Giorgia Meloni ha anche altro e di persino più serio, da spiegare. Ha firmato un documento congiunto dove al primo punto si legge di una «piena adesione al processo di integrazione europea». Che pare incompatibile con un disegno di legge da lei vergato nel 2018 e mai ritirato che è in pratica la rivendicazione del primato delle leggi nazionali su quelle comunitarie. Una bomba capace di far implodere l’Unione europea al pari di un’analoga iniziativa polacca. E del resto i sovranisti del Continente sembrano godere della sua stima vista la simbiosi con l’ungherese Orban o i neo-franchisti spagnoli di Vox e del suo comizio accalorato («Ancora con il comizio di Vox?», come si spazientisce Guido Crosetto. Sì, Crosetto, almeno fino a quando certe amicizie non saranno ripudiate). E i Tajani, e i cosiddetti moderati del centrodestra hanno nulla da eccepire su quell’infausto disegno di legge?

 

Se si passa all’economia la candidata favorita premier avrà i suoi dolori a smontare la favola del paese dei Balocchi in un’Italia afflitta da un gigantesco debito pubblico, tra flat tax al 15 per cento (Salvini), o al 23 (Berlusconi), taglio del cuneo fiscale, aumento delle pensioni, aumento dell’assegno unico, innalzamento dei limiti dell’uso del contante (grazie sentito dagli evasori fiscali), abolizione dei micro-tributi, sostegno alla natalità, riduzione delle aliquote Iva. E, chi offre di più, anche il ponte sullo Stretto.