Il divario con il Nord è cresciuto anche per responsabilità del Sud, che deve diventare più efficiente e affrancarsi dall’immagine lamentosa. E ora serve un nuovo patto nazionale

Il Sud è sempre più Sud. Prigioniero dei suoi vizi. Vittima di un antico pregiudizio. E di politiche pubbliche inadeguate ad abbattere l’invisibile muro tra le due Italie. Un muro da valicare con piacere solo in occasione delle vacanze estive, alla ricerca del pittoresco e dell’esperienza esotica nel recinto domestico. O per contaminarsi con un’effervescenza culturale glocal, tradizione e innovazione, linguaggi alti e bassi. Napoli sembra sempre più Napoliwood, immersa in una magica genialità con i suoi registi, scrittori, cantanti, attori: la Vesuvio valley dell’immaterialità artistica. Rassicurante consolazione per l’orgoglio frustrato dei meridionali. Poveri ma belli. Trionfo della creatività, assenza di imprenditorialità.

 

I numeri sono impietosi. Nel decennio 2010-2020 il divario tra il Nord e il Sud si è ampliato rispetto al passato. «La questione meridionale è diventata ancor più chiaramente parte di una questione nazionale», certifica la Banca d’Italia nel rapporto pubblicato a fine giugno. Per il presidente del Consiglio Mario Draghi «il sud è al centro dell’attenzione dell’esecutivo. Vogliamo che il Mezzogiorno torni ad avere la centralità che merita in Italia e in Europa».

 

C’è un tesoro da amministrare. Il 40 per cento dei fondi del Pnrr, pari ad almeno 80 miliardi, sono destinati al Sud proprio per colmare le diseguaglianze territoriali del nostro Paese. Irrompe anche la geopolitica. Con l’invasione russa dell’Ucraina le coste meridionali dell’Italia sono individuate come il terminale naturale per fonti diverse di approvvigionamento energetico. Così la questione del Mezzogiorno, che nell’ultimo quarto di secolo era apparsa un residuo ideologico fuori del tempo, torna al centro del dibattito pubblico. Con mille ambiguità. A partire dal giudizio sull’autonomia differenziata caldeggiata dal Lombardo-Veneto leghista e dalla “rosa” Emilia-Romagna. La ministra forzista (lombarda) Maria Stella Gelmini lavora a una legge-quadro per una maggiore autonomia regionale. In disaccordo con la ministra forzista (salernitana) Mara Carfagna, sensibile invece all’allarme delle classi dirigenti meridionali. Una faglia sismica in movimento nella componente “moderata” del centrodestra.

 

Gli anni passati hanno provocato lacerazioni profonde. Sia con i governi a trazione leghista sia con i governi controllati dal Pd. Non si è avvertita differenza. La Svimez, la storica associazione di ricerca sulle condizioni del Mezzogiorno, ha calcolato che oltre due milioni di persone hanno abbandonato i paesi del Sud, dove sono nati, per trasferirsi al Nord o all’estero. In prevalenza giovani laureati e diplomati, capitale umano d’esportazione. Un esodo massiccio nell’arco di 15 anni, tra il 2002 e il 2017, tuttora in corso. È come se dalla cartina geografica fossero state cancellate 15 città popolate come Foggia.

 

Le regioni meridionali sono deboli sia sul fronte demografico che su quello economico. La stessa Banca d’Italia ha sottolineato come i tagli al settore pubblico, imposti negli anni della Grande Crisi, abbiano ulteriormente impoverito il Mezzogiorno. Siamo al cortocircuito, perché senza una pubblica amministrazione efficiente è messa a rischio la capacità di spesa degli ingenti fondi del Pnrr.

 

Se si vuole rilanciare la questione del Mezzogiorno occorre un nuovo paradigma. Il Sud deve accettare la sfida dall’efficienza. Serve affrancarsi dall’immagine lamentosa, perché il Sud parte dei ritardi li ha accumulati per propria responsabilità. Se davvero si vuol pesare di più nel contesto europeo e internazionale, questo è il momento storico per un nuovo patto nazionale: il Mezzogiorno come motivo d’interesse per la crescita dell’intero sistema Italia. Funzionerà?