Il capitalismo italiano va riformato, come in Usa e Germania. E per farlo lo Stato è decisivo. Altrimenti gli stipendi resteranno al palo

A partire dalla stagione delle privatizzazioni delle società pubbliche, a differenza di Germania e Francia, i salari italiani hanno preso a diminuire e la produttività delle imprese non è aumentata. Le conseguenze non sono da poco: solo per fare un esempio, i pochi laureati italiani scappano all’estero, dove la carriera dipende da meritocrazia e forme di democrazia industriale, invece di essere legata a logiche aziendali familistiche.

 

Per uscire da questa drammatica situazione serve (finalmente) riformare il capitalismo italiano, così come hanno fatto Germania e Stati Uniti, con tempi e modalità diverse, dopo che la seconda rivoluzione industriale aveva reso la presenza di grandi imprese un elemento indispensabile dello sviluppo economico. Non sono stati passaggi indolori e ci sono stati forti contrasti politici e sociali perché, nella pratica, si è fatto in modo che, con la crescita dimensionale d’impresa, la famiglia fondatrice ne perdesse gradualmente il controllo. Negli Stati Uniti la lotta fiscale ingaggiata da Roosevelt negli anni ’30 contro le piramidi societarie che permettevano di estendere il controllo grazie a un sistema di scatole cinesi, è stato uno dei molti provvedimenti che hanno portato a rendere difficile la successione familiare nelle grandi imprese.

 

In Germania il sistema del “mitbestimmung”, cioè la partecipazione attiva dei lavoratori nei processi decisionali delle aziende, è stato favorito dalla debolezza delle grandi famiglie capitalistiche tedesche (che avevano cooperato con il nazismo) e dalla forza della socialdemocrazia e dei sindacati. Limitando la possibilità di attribuire cariche manageriali a membri della famiglia privi di capacità adeguate si attribuisce autonomia al management, oltre a stimolare un senso di appartenenza dei dipendenti all’impresa.

 

Sia il modello americano sia quello tedesco costituivano dei punti di riferimento quando in Italia, si decise di privatizzare gran parte delle imprese pubbliche. Anche se le logiche di lottizzazione politica avevano intaccato l’integrità dei processi di selezione dei manager, l’impresa pubblica italiana aveva contribuito a superare i vincoli che la gestione familiare poneva per le grandi imprese. E l’economista Marcello De Cecco temeva che la fine dell’impresa pubblica potesse accompagnarsi alla fine della grande impresa nel nostro paese.

 

Vi fu una discussione appassionata e vivace, promossa soprattutto dall’allora vicedirettore dell’ufficio studi di Banca d’Italia, Fabrizio Barca, fra i sostenitori dei modelli tedesco e americano. Eppure, il risultato fu la deludente legge Draghi del 1998 che permetteva alle imprese italiane di scegliersi il modello che volevano.

 

Le privatizzazioni hanno talvolta lasciato lo Stato proprietario di un consistente quantitativo di azioni che gli permettesse di selezionare il management (Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri) e, in altri casi, dato il controllo a un nucleo di azionisti privati (Alitalia, Autostrade, Ilva, Telecom). Nel primo caso i risultati sono stati nel complesso positivi, meno nel secondo. Non è dunque opportuno restringere la presenza dello Stato nelle grandi imprese in una situazione in cui il capitalismo italiano non è stato ancora riformato. Occorrerebbe, al contrario, estendere e valorizzare il ruolo delle imprese pubbliche. Ma questo non basta. Bisogna anche riformare il governo societario del capitalismo italiano. Oggi la direttiva europea a favore di una democratizzazione delle imprese costituisce un’occasione preziosa per ripensare e attuare una riforma del capitalismo italiano. Il convegno “Oltre la famiglia e lo stato. Quali riforme per il capitalismo italiano?”, appena tenutosi al dipartimento di Economia Politica e Statistica dell’Università di Siena si è aperto con l’auspicio del ministro Andrea Orlando che questa occasione non vada persa. Il convegno è stato concluso proprio da Fabrizio Barca che ha rimarcato come la bassa crescita della produttività e l’impoverimento del paese dipendono dal fatto che negli anni ‘90 furono fatte scelte di politica economica inadeguate e che all’epoca si scelse di non scegliere.

 

Ugo Pagano è Professore di Economia politica all’Università di Siena