Novaxismo, putinismo e populsovranismi vanno per la maggiore. Le idee davvero liberali sono minoranza nel centrodestra. Praticamente un miraggio

Nella fase storica in cui l’ordinamento internazionale liberale e la stessa idea di democrazia rappresentativa risultano sotto attacco si ripresenta un quesito. Un interrogativo dalla cui risposta derivano indicazioni ancora più utili oggi, dal momento che i proclami dei propagandisti del Cremlino descrivono quello in corso come l’equivalente di uno «scontro di civiltà», ripetendo a ogni piè sospinto il loro odio per i valori illuministici e teorizzando il ritorno della divisione del mondo in blocchi.

 

Verrebbe da rimarcare che tali dichiarazioni costituiscono, assai banalmente (sebbene non meno tragicamente), la foglia di fico ideologica dello sconsiderato neoimperialismo di Putin e del suo cerchio magico, che fa leva su nostalgie e rancori nutriti da vari settori della popolazione russa.

 

Nondimeno, prendendo molto sul serio - come va fatto, visto che viene invocato per “legittimare” stragi e crimini di guerra - il Russkiy Mir (l’ideologia del «Mondo russo»), risalta, per converso, la categoria occidentale di «Paese normale» quale democrazia liberalrappresentativa compiuta e consapevole dei suoi ideali di riferimento. Un paradigma o - per meglio dire, con Max Weber - un idealtipo la cui applicazione in Italia si è rivelata sempre un po’ problematica, come nel caso delle parabole della destra della Prima e della Seconda Repubblica. Una destra sulla quale si è proiettata a lungo l’eredità postfascista (tuttora presente, quanto meno in termini di immaginario, all’interno di alcuni suoi settori), e pronta a inseguire pulsioni, scorciatoie e visioni che mal si conciliano con i fondamenti della liberaldemocrazia, quando non le remano esplicitamente contro.

 

A riproporre questo tema di lunga durata è un episodio recente (ed emblematico). L’imprenditore Paolo Damilano, già candidato sindaco del centrodestra alle ultime elezioni amministrative di Torino, se n’è andato dalla Lega criticando il suo posizionamento in politica estera (e soprattutto la sua lunga storia in materia, con una certa irresistibile attrazione per il “fascino indiscreto” delle autocrazie e un antiamericanismo sempre pronto ad affacciarsi).

 

Ha sbattuto la porta - mentre dalle parti dei salviniani di stretta osservanza lo si considera come l’avanguardia di un ipotetico “complotto” di matrice giorgettiana - parlando di una «deriva populista» e dicendosi atlantista. Ovvero l’orientamento nelle relazioni internazionali in cui maggioritariamente (e tradizionalmente) si riconoscono la destre liberalconservatrici di tutto l’Occidente. E, invece, la destra liberale in Italia risulta decisamente minoritaria, quasi un miraggio, al punto che pure l’atlantismo diviene residuale in una nazione in cui il novaxismo-putinismo e i vari populsovranismi vanno per la maggiore. Dopo l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, i leader e i partiti che hanno aspirazioni di governo devono, sempre di più, fare i conti con l’emergere di un «fattore P» (come Putin), che va a sostituire l’antico «fattore K» (inventato da Alberto Ronchey). Al momento, tra le destre, sembra averlo compreso soltanto Giorgia Meloni, ma si tratta comunque di una conversione che trova resistenze nel ventre profondo di FdI, data la diffusa ammirazione, ancora fino a pochissimo tempo fa, per l’autocrate di Mosca.

 

Insomma, ancora una volta e anche in questo campo, ci ritroviamo immersi nella ben nota eccezione italiana. Un mutamento drastico delle posizioni di politica estera costituisce, pertanto, un requisito indispensabile per una destra liberalconservatrice occidentale a pieno titolo, di cui anche il sistema politico italiano nel suo complesso avrebbe bisogno per proseguire il cammino della propria (sempre difficoltosa) normalizzazione.