Invece dell’equidistanza tra aggressore e aggredito bisognerebbe difendere i diritti umani e l’autodeterminazione. E invece i «putitaliani» cavalcano in modo peloso anche la tradizione nobile del pacifismo

Diceva il Mahatma Gandhi: «occhio per occhio, e il mondo diventa cieco». L’inesauribile escalation bellica a cui stiamo assistendo va arrestata, e si deve sperare nella sospensione delle ostilità. Ma, malauguratamente non è ancora così, e incessante si rivela pure l’innalzamento dei toni della propaganda russa, che è arrivata al negazionismo dell’esistenza stessa del popolo ucraino, teorizza di fatto il suo sterminio, ciancia di uno «scontro di civiltà» che contrappone il cosiddetto «Russkiy Mir» all’Occidente, e vaneggia l’inizio di una terza guerra mondiale. Proprio per questo chi ha a cuore una pace autentica (ben diversa dalle sue declinazioni rinunciatarie nei confronti delle autocrazie e dei totalitarismi, pronti a stracciare ogni accordo appena vedono una finestra di opportunità per affermare la loro brutale volontà di potenza) deve avere chiaro un sistema di valori. E, perciò, servirebbe una cultura politica di sinistra in generale – e di centrosinistra, in particolare – dotata di un profilo valoriale e ideale solido al cospetto della guerra di Putin.

 

Una delle tante conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina è di avere esacerbato gli animi e incrementato il tasso di polarizzazione - specie via social media - nelle opinioni pubbliche dei Paesi liberaldemocratici (dove esiste il dibattito, a differenza della censura onnipervasiva del regime putiniano). E di avere prodotto l’effetto collaterale di scoperchiare il vaso di pandora dell’amplissimo umor nero che ribolle specialmente in Italia.

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O, per meglio dire, dell’«umor rossobruno», collettore di opposti estremismi, complottismi, vittimismi ingiustificati e forme di hate speech che si allarga senza sosta dall’inizio della pandemia di Covid-19. E che ha trovato nel neoimperialismo e nella disinformazione russi un ennesimo innesco potentissimo.

 

Il rossobrunismo si presenta ora con molto più di 50 sfumature, e si cela sistematicamente dietro l’ambiguità. Una delle formule più adottate dalla propaganda dei «putitaliani» coincide, infatti, con il cavalcare in modo peloso i dubbi e il pacifismo - che, invece, naturalmente, è nobilissimo nelle sue tradizioni - per convertirli in equidistanza tra l’aggressore e l’aggredito, mettendo sullo stesso piano questioni differenti e indipendenti (una tipica strategia comunicativa postmoderna). In questo contesto paludoso, percorso da sentiment inquietanti, la sinistra dovrebbe denunciare con forza la catastrofe morale ed etica, oltre che umanitaria, generata dal putinismo. E dovrebbe pertanto mostrare la saldezza di una cultura politica ispirata alla centralità dei diritti umani e al principio di autodeterminazione dei popoli anche davanti ai movimentismi “a senso unico”, alle numerose zone grigie e ai “cattivi maestri” intellettuali che in queste settimane si sono palesati, dai neostalinisti ai «neneisti» che condannano a ogni piè sospinto la Nato, ma faticano assai a pronunciare parole inequivocabili di condanna del Cremlino, dal momento che la «cosa è più complessa» (e, invece, qui, a dispetto di qualsivoglia sofisma, la situazione risulta tragicamente e sanguinosamente chiara).

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Dunque, bene fa il Pd di Enrico Letta, che sull’euroatlantismo e il «pacifismo (inevitabilmente) armato» tiene la barra dritta. E bene fa quella parte dell’Anpi che invita all’unità dell’associazione, ma non si presta ad alcuna ambivalenza – e oggi c’è un grande bisogno di rinverdire l’eredità dell’antifascismo anche dicendo che una manifestazione del fascismo postmoderno corrisponde esattamente alla nefasta ideologia putiniana, e che il Cremlino è il primo finanziatore dell’estrema destra in giro per il mondo (come L’Espresso documenta da tanto tempo). Del resto, il novaxismo-putinismo, checché ne pensino i nostalgici, non è il marxismo-leninismo.