La situazione negli istituti di pena italiani è vergognosa. Per questo servono alcuni interventi come la liberazione dei reclusi tossicodipendenti

«Il sistema carcerario è incompatibile con la rieducazione, perché troppo brutale. Le sue strutture edilizie e le condizioni inumane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pretesa giuridica».

 

«La stessa prigione è una forma di pena da rivedere profondamente. Rispetto a qualche anno fa, qualcosa si è fatto, ma è ancora troppo poco di fronte alle emergenze note a tutti, di cui quella più esplosiva è il numero dei detenuti».

 

Ho scelto due frasi di Carlo Nordio, contenute nel dialogo con Giuliano Pisapia sulle riforme possibili, pubblicato nel 2010 nel volume “In attesa di giustizia”. Il confronto tra un politico di sinistra e un magistrato liberale e moderato trovava motivo nell’aver entrambi presieduto commissioni per la riforma del codice penale (rispettivamente nel 2004 e 2006) e nell’aver individuato soluzioni simili, ma con lo stesso destino delle precedenti commissioni Pagliaro (1988) e Grosso (2000). Quest’ultima improntata al diritto penale minimo, con la pregevole indicazione di cambiamento del sistema delle pene attraverso il superamento della centralità del carcere e il favore sia verso il principio di riserva di codice sia verso quello di offensività.

 

La presenza di Nordio nel governo Meloni rappresenta una vera contraddizione: dipenderà da lui che questa si riveli una contraddizione felice, e realizzi l’obiettivo dichiarato ripetutamente di cancellare il codice Rocco e di approvare un codice repubblicano dopo 90 anni, anziché un tradimento delle sue idee.

 

La tragedia di 79 suicidi nelle carceri italiane fino a novembre scorso rischia di costituire un alibi per versare lacrime di coccodrillo, ma non fare nulla per cambiare. Cosa andrebbe fatto lo sappiamo almeno dal 1949: lo indicava già Ernesto Rossi a Piero Calamandrei, direttore della rivista “Il Ponte” e promotore della commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura nel 1948.

 

La prima verifica sulle buone intenzioni di Nordio si manifesterà entro la fine di dicembre con la definizione del decreto-legge sull’ergastolo ostativo, sui rave party e sulla riforma Cartabia. E, ancora prima, con la scelta della persona a cui affidare la delega del carcere, al viceministro Sisto o a uno dei sottosegretari, e soprattutto con la nomina del capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, con la conferma dell’ottimo Carlo Renoldi o la preferenza per un magistrato giustizialista.

 

Certo non è un buon segno la delega per la politica antidroga affidata da Giorgia Meloni ad Alfredo Mantovano, esponente del proibizionismo moralistico e carcerocentrico, ispiratore della nefanda legge Fini-Giovanardi.

 

Per parte mia suggerisco tre misure indifferibili:

1) liberare i 15.000 detenuti classificati come tossicodipendenti e da affidare a programmi alternativi territoriali o comunitari;

2) istituire case di reintegrazione sociale per i soggetti (7.000) con pene inflitte fino a tre anni e quelli con pene residue fino a tre anni (altri 13.000), con la direzione affidata ai sindaci e con personale educativo, del volontariato e del terzo settore per incarnare l’articolo 27 della Costituzione;

3) approvare una legge intelligente sul numero chiuso per limitare gli ingressi in carcere.

 

È sicuro che, senza misure deflattive, l’Apocalisse alla fine verrà.