Chi la pronuncia pensa di dire qualcosa di nobile. In realtà è solo falsa. E questi Mondiali in Qatar ne sono la dimostrazione più evidente

C’è una frase, spesso pronunciata in questi giorni, che nelle intenzioni di chi la dice dovrebbe suonare bellissima, nobile, etica: «Il calcio deve restare fuori dalla politica». O la variante: «La politica deve restare fuori dal calcio». Ma quando arriva alle orecchie di un uditorio planetario, in tempo di Mondiali, risulta falsa, ipocrita, farisaica.

 

Si poteva sperare che l’epoca di Sepp Blatter fosse il punto più basso toccato dalla Fifa, il massimo organismo del calcio mondiale. Con il suo successore, l’italo-svizzero Gianni Infantino, da un anno residente in Qatar con la famiglia, si è ripreso a scavare.

 

Per cercare di buttare la palla in tribuna e allontanare i sospetti di invasione di campo tra sport, business e politica, Infantino si è esibito nel famoso discorso degno di un rapper: «Oggi mi sento qatarino, oggi mi sento arabo, oggi mi sento africano, oggi mi sento gay, oggi mi sento lavoratore migrante».

 

Fosse davvero gay passerebbe qualche guaio nel luogo dove si svolgono i Mondiali. Fosse lavoratore migrante avrebbe avuto buone possibilità di morire nei cantieri degli stadi. Fosse davvero così interessato alle minoranze, ai diritti degli ultimi, eleverebbe qualche protesta presso gli emiri quando i loro zelanti poliziotti sequestrano le magliette di Mahsa Amini, la ragazza uccisa in Iran per una ciocca di capelli. Fosse contro la censura non avrebbe vietato di portare la fascia arcobaleno ai capitani delle squadre, pena un’ammonizione. Cartellino giallo alla libertà.

 

La Fifa fa politica da sempre. L’aveva fatta quando aveva deciso di assegnare i Mondiali in sequenza alla Russia e agli Usa per bilanciare i favori alle due grandi potenze (ce ne sarebbe una terza, la Cina). L’ha fatta a maggior ragione quando tra i due appuntamenti ha intrufolato il Qatar per il volere di un presidente francese, Nicolas Sarkozy, che giocava una geopolitica tutta sua per i denari del Golfo. L’ha fatta con la scusa di mostrare la supposta modernità di un Paese e aiutarlo nel progresso verso la conquista dei diritti per tutti non solo per i famigli della casa regnante. La modernità sono lo shopping delle bellezze di Francia (e d’Italia), quanto al progresso lo si vede in questi giorni. È semmai la Fifa ad essere regredita e ad aver rinunciato, per cinque miliardi di euro di buoni motivi, ai valori che in teoria dovrebbe propagandare: fair play, uguaglianza, difesa delle minoranze vessate.

 

Implacabile arriva, a questo punto di ogni discussione, l’obiezione del rispetto verso la cultura altrui. Non meno ipocrita della precedente. Forse che allora si doveva andare in un luogo dove il regime decide quale t-shirt si può usare e quale no? Forse che per rispetto dell’ospite bisogna imbavagliare i calciatori e impedire loro di dire quello che pensano e se sono discoli come i tedeschi si oscurano le immagini della loro protesta? Forse che si arriva al grottesco di mandare un guardalinee a controllare la fascia del portiere tedesco Neuer nel caso, sia mai, fosse colorata?

 

Esiste, poi, l’ipocrisia di segno opposto. Sognare che davvero lo sport possa essere scisso dalla politica quando è il più grande palcoscenico planetario e dunque da sempre abituato agli assalti di chi vuole veicolare messaggi, difendere una causa, promuovere un’idea.

 

Dunque si rassegni Infantino. Non per colpa sua il calcio è politica, la sua continuazione con altri mezzi. Talvolta è addirittura utile per difendere delle buone cause. Lui, però, ha scelto la causa sbagliata.