Nel nostro Paese la tradizione liberale è sempre stata debole e oggi i populisti hanno l’egemonia tanto sulla maggioranza quanto sull’opposizione

Dopo l’insediamento del governo Meloni è giunto definitivamente il momento di rivedere la dicotomia tra sistema e antisistema, quella frattura su cui i partiti populisti hanno costruito la conquista di palazzo Chigi. All’indomani di una sequenza inarrestabile di successi (con l’unica parentesi della sospensione della campagna elettorale permanente determinata dalla pandemia), l’antiestablishment si fa pertanto establishment. In Italia come in altri luoghi, ma con tutta una speciale valenza laboratoriale e “avanguardistica” proprio nel nostro Paese, fucina a getto continuo e di lunga durata dell’antipolitica e del populismo antiliberale (come aveva intuito Steve Bannon indicandolo compiaciuto come un avamposto della “rivoluzione” e della “Internazionale sovranista”, sin dalla fase gialloverde del Conte 1). E non soltanto perché i gruppi dirigenti delle formazioni neopopuliste diventano élite di governo in prima persona (e, come da antropologia del potere e suo inevitabile funzionamento, si alleeranno con vari esponenti dell’alta burocrazia), ma anche per alcune ragioni di fondo (e più profonde).

 

L’Italia, nazione tutto sommato di recente costituzione, in larghi settori della cultura e della popolazione ha sempre nutrito un rapporto problematico con quella cultura politica liberale (e post-illuministica) che identifica una delle bandiere della modernità europea. E che ha rappresentato la concezione mainstream e “di sistema” di molti ordinamenti politici e sociali dell’Occidente, mentre qui risultava appunto maggiormente fragile e malferma, tanto più alla luce del suo repentino passaggio, per tanti versi senza soluzione di continuità, dalla premodernità al postmoderno. Oggi, in questo nostro Paese, si può dire che il mainstream coincide con il ventaglio delle culture politiche neopopuliste che, dopo una serie di governi tecnici, fanno perno sulla rivendicazione dell’investitura popolare (la quale, però, fondamento del modello democratico, non è certo una loro esclusiva).

 

Dalla critica, sviluppata tra Prima e Seconda Repubblica, nei confronti della partitocrazia sino a un ricorso disinvolto agli strumenti della politica pop e alle scorciatoie cognitive della disintermediazione, la destra ha saputo cavalcare i temi dell’antipolitica. Al pari dei neopopulisti che, durante la loro ascesa, si dichiaravano «oltre la destra e la sinistra». La somma delle percentuali riportate alle ultime elezioni da quello che si potrebbe chiamare il «campo larg(hissim)o populista», a cui devono essere ascritte formazioni tra loro anche in competizione (o direttamente in conflitto) - vale a dire, FdI, Lega, Movimento 5 Stelle e i partitini no-vax - segnala come le culture politiche neopopuliste e sovraniste si rivelino attualmente maggioritarie. E come da antisistema si siano difatti convertite in sistema. Tanto che quelle appartenenti alla coalizione risultata vittoriosa stanno dispiegando una vera e propria operazione di egemonia culturale, che si sta manifestando in vari modi (dall’inserimento nel discorso pubblico di vecchie-nuove parole d’ordine alle deleghe ministeriali con nomi che sono “tutto un programma”). Mentre, sull’altro fronte, Giuseppe Conte sta cercando di egemonizzare con il suo neopopulismo di ritorno - che ha battuto il progetto “liberalmoderato” di Luigi Di Maio - una sinistra sempre più in confusione e percepita come fattore di conservazione dell’esistente anziché di sua trasformazione.

 

D’altronde, le forze populiste hanno una spiccata natura di partiti pigliatutto che puntano a occupare il sistema. Così è accaduto per il tentativo (fallito) di una «Balena gialla» pentastellata, e così sarà per il progetto di partito neoconservatore e di destracentro a trazione meloniana.