Il pugno duro con le navi delle Ong può forse funzionare come propaganda. Ma rischia di pregiudicare l’atteggiamento di Bruxelles verso il nuovo esecutivo italiano

Tutto sommato una Giorgia Meloni a trazione salviniana era più che prevedibile. C’era da aspettarselo, dai. La verità è che gli alleati riottosi, rabbiosi o spodestati pesano, condizionano ogni scelta, o magari costringono, come dire, a uscire al naturale, a far emergere ciò che è represso o mascherato. Perché alla fine, gratta gratta, sotto i sorrisi, la prudenza nell’avviare la manovra economica e l’altalena dei rapporti con Bruxelles si nasconde una destra-destra sovranista, populista, antieuropea.

 

Lo ha colto subito Viktor Orbán, l’amico mai rinnegato che il Parlamento di Strasburgo ha bollato come un autarca, peggio, una “minaccia sistemica”: «Finalmente! Un grande ringraziamento a Meloni per la protezione dei confini dell'Europa»; e prima e più degli italiani lo hanno capito gli americani: «Giorgia è più coraggiosa dei repubblicani», si è esaltato Tucker Carlson, notissimo e super trumpiano anchorman di Fox Tv. Altro che “Giuseppi”...

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Adesso però la strategia meloniana, già arrivata alla sua terza fase, è a un punto di svolta: stare in equilibrio è sempre più difficile. Tutto è cominciato con una campagna elettorale - la fase uno - durante la quale Giorgia ha centellinato un’immagine di sé assai rassicurante. Per incassare il dividendo di anni di opposizione e accaparrarsi i consensi dei delusi da un Salvini di lotta e di governo ma anche da un Berlusconi in disarmo, Meloni ha esaltato la sua biografia da “underdog” che ce l’ha fatta, abbassato i toni in tv, fatto trapelare le sue telefonate a Mario Draghi, attenuato gli spigoli autarchici e nazionalisti, ripetuto il suo rispetto per i diritti, e ci mancherebbe, cercato per l’Economia un super tecnico che non dispiacesse al premier uscente e dopo aver ricevuto una valanga di “no” ha ripiegato sul più draghiano e meno salviniano dei ministri uscenti. Tale è stata la melassa buonista sparsa per settimane da far dimenticare perfino quel comiziaccio senza freni e senza rete a Barcellona dove, davanti al popolo post franchista di Vox, Meloni era Meloni.

 

La seconda fase è stata per Giorgia la più difficile perché, conquistato Palazzo Chigi, si è cimentata nel tenere insieme governo e piazza, i conti e la pancia, l’identità e i vincoli di Bruxelles, Giorgetti e Salvini. Tacco e punta: con l’uno si frena, con l’altra si accelera. Da subito ha lanciato precisi messaggi identitari: rassicuranti per i no vax, concilianti con i fan del denaro contante, complici con gli evasori fiscali in attesa di condono, generosi con le partite Iva a forfait (il solito Salvini che freme e preme), comprensivi per gli obiettori antiabortisti. Un chiaro “liberi tutti” anche per compensare il poco fieno in cascina e l’inevitabile prudenza nella gestione dei soldi pubblici.

 

Tutto questo sembra figlio di un progetto più ampio: fare da punto di riferimento di un vasto blocco sociale probabilmente nascosto anche nel non voto e nell’antipolitica, oggi sparso e diviso ma unito da bandiere comuni (no vax, no tax, no rave, no aborto) e sensibile alle sirene del populismo sovranista. Pare proprio che Meloni voglia giocare questa partita in prima persona e da sola. Blindandosi. Tale è la preoccupazione per i nemici che ha in casa da spingerla non solo a tenere gli alleati più ingombranti lontani dai ministeri caldi, ma anche ad accentrare alcuni dossier spinosi a Palazzo Chigi, sotto il controllo suo e dei suoi fedelissimi: la delega per i servizi segreti ad Alfredo Mantovano, per i balneari a un comitato interministeriale da lei presieduto, quella per la gestione dei progetti legati al Pnrr - quasi 200 miliardi che fanno gola a molti - a Raffaele Fitto. La premier si barrica, e in qualche modo si isola.

 

La terza fase si è consumata infine sul molo di levante del porto di Catania dove ha ormeggiato la Humanity, e poi davanti ad Al Sisi dove, con buona pace del diritto e dei diritti, della sovranità nazionale sbandierata a corrente alternata e del ruolo internazionale dell’Italia invocato a chiacchiere è stato dimenticato ancora una volta il povero Giulio Regeni. Gli applausi di Orban, la soddisfazione di Matteo Salvini e i diktat di Matteo Piantedosi sul «carico residuale» hanno chiuso il cerchio confermando le contraddizioni e gli umori profondi del melonismo. Costretto poi a chinare la testa dinanzi ai richiami della commissione europea a rispettare le leggi, e a far sbarcare tutti i migranti di Catania.

 

È ovvio e giusto chiedere che l’Europa si muova perché altrimenti è impossibile controllare i flussi migratori, ma bisognerebbe farlo senza violare leggi nazionali, europee e del mare. Poi, mentre la Francia dà una mano, si preme sulla Germania (che ha accolto un milione di ucraini), ma si finge di dimenticare che della questione si parla invano da anni anche perché – forza del paradosso e del contrappasso – paghiamo il fatto che ognuno fa il sovranista a casa sua, proprio come vorrebbe Giorgia, e come fanno gli amici di Visegrad che si sono sempre opposti a una redistribuzione obbligatoria degli immigrati, sostenuti in questa battaglia proprio da Meloni e Salvini.

 

Dietro la tragedia dei migranti, trasformata in mercato della fragilità e della sopravvivenza e destinata inevitabilmente a ripetersi, si nasconde un’intera partita. La filosofia del pugno duro, annunciata con «la pacchia è finita» e poi sperimentata nel Mediterraneo (con figuraccia finale), può forse conquistare nell’immediato il consenso più vasto - mica possiamo prenderli tutti, aiutiamoli a casa loro, si muova Bruxelles: lo dice anche il Papa… - ma nella delicata rete di alleanze europee conduce l’Italia all’isolamento, alla marginalizzazione, o la trascina verso Paesi che come Polonia o Ungheria stanno in Europa solo per non pagare il prezzo di starne fuori. Se l’Italia chiede agli altri un comportamento diverso da quello che pratica qui, si mette nella condizione peggiore. È come pretendere dai soci del club Ue più soldi per il Pnrr (e ne abbiano avuti più di tutti) o un nuovo debito comune per affrontare la crisi energetica mentre facciamo poco o niente per abbattere il debito o per legare i fondi del Pnrr alle riforme per le quali ci siamo impegnati. Ma questa è tutta un’altra storia, dirà qualcuno. E invece, ahimè, è la stessa.