Matteo Renzi e la sua storica nemesi hanno molti più cose in comune di quanto pensano...

Dire che il Pd è guarito dal renzismo, come ha fatto Massimo D’Alema, e che dunque D’Alema stesso può rientrarvi, collide con tre dati oggettivi. Il primo: pare che gli altri, del partito di D’Alema, non siano così pronti a seguirlo. Il secondo: al netto della preparazione politica, indiscutibile, D’Alema ha purtroppo l’appeal di un frontale sulla A1. Il terzo: il Pd non è guarito dal renzismo perché contiene ancora una corrente eterodiretta che sarà decisiva, coi suoi transfughi, per eleggere il Quirinale. Infine, Renzi e D’Alema avrebbero tutto l’interesse a fare la pace: entrambi hanno impallinato in Prodi la speranza del centronisinistra e abbattuto il Pd ai minimi elettorali. Consiglio finale: D’Alema potrebbe rientrare in Italia Viva.

 

Novax Djokovic

Refuso voluto

Sere fa, Rete 4 ha rimandato in onda il celeberrimo “Il Marchese del Grillo”, film passato direttamente alla leggenda per via di una battuta pecoreccia assai: «Io so’ io, e voi nun siete un cazzo». Il motteggio ha scalato negli anni vette di popolarità inaudita, benché un filo ingeneroso verso quello che un tempo si sarebbe definito proletariato. Forse siamo felici di farci trattare così. O forse, più probabilmente, la commedia risulta molto pervasiva quando, pur sovrapponendosi alla realtà, permette di fuggirne. Paolo Villaggio ebbe a spiegare che tutti ridevano di Fantozzi senza rendersi conto di quanto un Fantozzi alberghi in ognuno di noi. Pensavano fosse il tizio seduto a fianco. E così ci piace “quel” Sordi perché pensiamo stia parlando al popolino altrui, del quale riteniamo di non essere parte. Un po’ come Berlusconi che vinse le elezioni facendo credere alle classi meno abbienti di afferire alla borghesia, dunque di dover difendere privilegi che non avevano e non più i diritti che avrebbero perso. Un format che è alla base del trumpismo e di tutti i potentati politici nati da allora in poi: sudditi e non cittadini, pubblico e non elettori. Ed è proprio al pubblico che hanno pensato l’Atp e le autorità australiane quando hanno in un primo momento permesso a Novak Djokovic di partecipare agli incombenti Open nonostante non sia vaccinato. Finora, Djokovic aveva ciurlato nel manico. Organizzatore di un torneo-focolaio in piena pandemia, in Serbia, successivamente si era sempre mosso sul confine della privacy da proteggere. Un po’ come quei giornali di bosco e di riviera che non sono ufficialmente novax ma devono pur vendere qualche copia e allora daje al greenpass, cioè alla coercizione indiretta a rispettare la salute altrui. Di italianissimo, almeno a voler pensare che certi difetti siano solo “cosa nostra”, c’è anche il metodo scelto dal numero uno al mondo per smarcarsi: un certificato medico col quale si è dichiarato non vaccinabile. Acrobazie microbiche che si comprendono, a fatica, da parte di chi sia alla mercé della disinformazione per motivi culturali e/o economici: purtroppo anche informarsi costa. Se arrivano da un tizio così fortunato, così ebbro di denaro e talento, di classe e potere, fanno davvero ribollire il sangue. Il filosofo contemporaneo Stanis Larochelle, nel celeberrimo pamphlet “Boris”, tacciava di eccessiva italianità ogni evenienza che non gli andasse a genio. Probabilmente, oggi, si correggerebbe: «Sei troppo Djokovic».