Un secolo fa, per un errore di fornitura, nacquero i “polli in batteria”. Oggi negli Usa vengono prodotte 75 miliardi di uova all’anno e in Italia nel 2020 sono stati macellati 573 milioni di capi

Tutto comincia da Bwwaauk, l’ovaiola che ritrova se stessa. Fuggendo dal capannone in cui vive stipata insieme ad altre 150mila compagne di sventura, diventa la protagonista di una storia di riscossa, che coinvolge un manipolo di attivisti animalisti, due ispettrici statali pentite, la figlia del proprietario dell’allevamento trasformata in eco-terrorista e un numero imprecisato di galline in fuga. La storia non finisce granché bene per noi esseri umani, condannati infine all’estinzione, ma molto meglio per i pennuti d’allevamento, i cui discendenti ritroveranno insieme alla libertà la loro originaria natura selvatica e una sorta di ingegnosa intelligenza aviaria.


Senza volerne spoilerare troppo la trama, il folgorante romanzo Capannone n. 8 di Deb Olin Unferth (edizioni Sur) è una specie di manifesto per la liberazione animale, che invita a riflettere sul rapporto stabilito nell’ultimo secolo tra l’homo sapiens e il bestiame che alleva. Neanche cent’anni sono infatti passati da quando videro la luce in Delaware, sulla costa est degli Stati Uniti, i primi allevamenti intensivi di polli. Le cronache narrano che l’industria nacque per errore: in un giorno imprecisato del 1923 una contadina del posto, Cecile Steele, ordinò 50 pulcini per produrre uova. L’addetto alle vendite comprese male l’ordine e gliene inviò 500. Invece di rimandarli indietro, la signora li chiuse in un capannone dando loro mais e integratori alimentari e vide che in poco spazio e con poco dispendio poteva far crescere un numero incredibile di animali. Li vendette quindi con profitto ai ristoranti della zona e ne ordinò altri 1.000. Poi diecimila. Poi ancora 26mila. La signora Steele avviò così un sistema di allevamento che si è diffuso in tutti gli Stati Uniti e poi nel mondo intero: oggi nel Delaware ci sono 200 polli per persona, mentre globalmente vengono allevati ogni anno 25 miliardi di galline da uova e polli da carne.

La trovata di Steele ha contribuito a modificare profondamente il rapporto essere umano-animale e ha avviato una trasformazione genetica dei capi allevati, che devono oggi rispondere a un’unica esigenza: garantire la massima produzione nel più breve tempo possibile. Così, sono stati artificialmente selezionati i capi con petti più grandi, sono stati somministrati loro antibiotici e ormoni per la crescita, sono stati escogitati sistemi per stimolare le galline a deporre uova giorno e notte forzando i loro cicli biologici. Gli allevamenti sono diventati verticali, su più piani, giganteschi hangar capaci di contenere milioni di capi. Esperimenti sempre più rocamboleschi sono stati fatti per adattare gli animali alla crescente richiesta di carne degli esseri umani: nel 2002, il governo cinese ha persino inviato tre uova su una navicella in orbita intorno alla Terra, nella speranza di creare una razza aliena più resistente e produttiva (oggi le discendenti di quelle galline spaziali vivono all’aperto in una fattoria biologica vicino a Pechino).

Di sperimentazione in sperimentazione, i polli da carne modificati geneticamente sono passati da un peso medio di un chilo a quattro chili dopo due mesi di vita. Le galline ovaiole sono passate dalle 100 uova l’anno covate in media negli anni ’40 alle odierne 300. Oggi, negli Stati Uniti vengono prodotti 75 miliardi di uova all’anno. In Italia nel 2020 sono stati macellati 573 milioni di polli, più di mille esemplari al minuto.

Non li vediamo. O meglio, vediamo solo il risultato del processo: carne bianca messa sotto vuoto in involucri di plastica o uova allineate in confezioni di cartone. Se questi miliardi di volatili si trovassero improvvisamente a razzolare all’aperto, come la gallina Bwwaauk in fuga dal Capannone n. 8, probabilmente ci chiederemmo perché abbiamo trasformato questi animali in una massa di impulsi e carne. E probabilmente avremmo difficoltà a trovare una risposta sensata.