Per rispondere alla violenza patriarcale bisogna analizzare l’intersezione tra le varie forme di discriminazione. E dare un nuovo volto alle battaglie: indigeno, nero, messicano, arabo, magrebino, sudamericano

Sono cresciuta con l’immagine della donna bianca emancipata e accattivante che si contrappone orgogliosamente a quella della straniera del Terzo mondo, fragile, ignorante e incapace di rispondere alla violenza del sistema patriarcale. Per come viene raccontato, il femminismo sembra essere una roba da donne bianche. Un sistema di pensiero troppo in là per queste donne del Terzo Mondo troppo impegnate a sfornare figli e a badare alle galline in qualche sperduto villaggio semi deserto a Sud del Mondo.


Tutte le volte che le nostre madri africane ci accompagnavano a piedi fino a scuola, portandosi le conseguenze della loro marginalizzazione sociale ed economica alle spalle, così manifeste nella qualità dei libri e dei pessimi vestiti usati che indossavamo, non potevo fare a meno di sentire addosso il disprezzo e il pietismo con i quali le donne bianche, madri dei nostri compagni di classe, guardavano alle nostre famiglie. A volte potevi persino sentirle chiacchierare tra loro, chiedendosi come mai le nostre madri non facessero niente per ribellarsi alla misera vita che conducevano. Poi magari tornavano nelle loro case, e se lo spaghetto al sugo era leggermente più al dente del solito venivano battute come un tappeto indiano, ma ho sempre pensato che l’idea di essere bianca e più fortunata ed emancipata di una donna afghana o africana, in qualche modo fungesse da lenitivo per tutte le botte e i divieti che il patriarcato nostrano ti riserva. Per la serie «quando vuoi stare bene pensa a chi sta peggio di te».


Vivere alla occidentale è diventato un modo velatamente razzista – ma nemmeno troppo velato – per affermare l’idea che solo occidentalizzandosi, ovvero mettendo da parte la propria cultura in favore di una migliore, noi selvaggi del Terzo mondo potremo considerarci a pieno titolo delle proto-scimmie in giacca e cravatta che nel fine settimana giocano a golf e la domenica vanno in Chiesa.


Ma questo approccio alla questione di genere fuori dai confini occidentali è stato anche il peccato originale del femminismo liberale, che è sempre stato velenosamente bianco, razzista, e che con quel suo sguardo paternalista non ha mai voluto considerare sufficientemente progressiste o degne di nota le battaglie di tutte quelle storiche, filosofe, scrittrici, attiviste e politiche non bianche considerate piuttosto come “sorelle minori un po’ abbronzate” di una battaglia tutta da apprendere.


Poi è arrivato il femminismo intersezionale ed è tutto cambiato. Ad oggi l’approccio che analizza l’intersezione tra le varie forme di discriminazione si presenta come la cura più efficace contro il femminismo bianco che continua ad essere un sistema di pensiero volente o nolente al servizio dell’imperialismo. Angela Davis, bell hooks e Nawal El Saadawi sono solo alcune delle grandi assenti che figurano a stento nel panorama mainstream del dibattito sul femminismo. Eppure è stato il loro attivismo di accademiche e pensatrici instancabili, a strappare dalle mani dell’ideologia razzista e coloniale un femminismo che veniva utilizzato come giustificazione per le discriminazioni razziali di quanti sostenevano che l’immigrazione dai Paesi in via di sviluppo era un pericolo soprattutto per le donne.


Ed è stata quella stessa mancanza di intersezionalità che porta il femminismo a prestare il fianco all’ideologia razzista a trasformare Giorgia Meloni, delfina del centro destra e instancabile islamofoba da manuale, nella finta paladina dei diritti delle donne, arrivando a strumentalizzare in chiave razzista, anti-immigrati e islamofoba il caso del femminicidio di Saman Abbas; morta perché voleva liberarsi dal giogo di una famiglia che, con la scusa della religione, aveva provato a fare della ragazza un dono per stringere un accordo tra famiglie. Giorgia Meloni che si risveglia suffragetta, nonostante gli ideali del suo partito deraglino totalmente dall’idea del mondo pensato da una femminista intersezionale, è il risultato di un femminismo bianco, che senza le donne del Sud è destinato ad essere totalmente cooptato dal patriarcato suprematista bianco, un sistema di potere che era stata la stessa bell hooks, scrittrice, sociologa e afroamericana ad individuare, partendo dalla sua storia personale di bambina costretta a fare la spola tra la zona bianca e quella nera della città, per andare a scuola.


Il volto del femminismo è indigeno, nero, messicano, arabo, magrebino, sudamericano. Non c’è futuro per il femminismo senza le Marielle Franco, le Berta Càceres, le Losana McGowan, le Catherine Han Montoya, le Guadalupe Campanur Tapia. Loro e le altre, tutte cadute per mano del patriarcato armato. La lezione sull’intersezionalità, insegnata dalle donne del Sud del Mondo all’Occidente tutto, salverà le donne bianche dalla loro stessa bianchezza.