Ognuno di noi ha un pubblico on line. E spesso si è tentati di assecondarlo, come se fosse un corpo unico. Ma non è così che si eleva il dibattito pubblico

Mi interrogo spesso su cosa significhi avere una community, rivolgersi alla propria community, parlare alla propria community, affidarsi alla propria community. Me lo chiedo perché so benissimo che avere un pubblico di riferimento (una community, appunto), fedele e appassionato, è una cosa bellissima. Ma cosa accade quando si ha paura di scontentare la propria community, quando l’obiettivo non è più raccontare ciò che si pensa, ma ciò che la community vuole sentirsi dire?

Ormai ragioniamo tutti, chi in maniera manifesta e consapevole, chi del tutto inconsapevolmente, tenendo come punto di riferimento ciò che accade sulle piattaforme social. Le interazioni virtuali sono diventate ancora più presenti nelle nostre vite da quando la socialità in carne e ossa è stata interrotta per la pandemia; da quel momento la comunità di riferimento è diventata quasi unicamente quella presente sui social. Quando scrivi un post, registri un video, fai una diretta è fondamentale capire a chi ti rivolgi, chi legge quello che scrivi, chi guarda e ascolta i video che fai, ma è ugualmente importante capire cosa si aspetta da te? Forse no. Forse immaginare cosa chi legge e ascolta le tue parole si aspetta da te può essere un’arma a doppio taglio, può essere un modo per seppellire un sogno che appartiene a molti - sicuramente appartiene a me - che è quello di provare a parlare a tutti. Non blandire, non rassicurare, ma raccontare.

La mia aspirazione più grande, quando ho iniziato a scrivere, quando ho ricevuto i primi inviti in tv e le prime richieste di intervista, era provare a far ascoltare quello che avevo da dire anche a persone che la pensavano in maniera diversa da me. Desideravo e desidero raggiungere persone che hanno gusti letterari e musicali diversi dai miei; persone che votano diversamente da me, persone che hanno una visione del mondo diversa dalla mia. E questo non per “convertire”, per provare a far cambiare idea, ma perché mi ha sempre interessato creare questa osmosi tra mondi che in genere non si parlano e che, nei casi più estremi, tendono a disprezzarsi. Ho sempre voluto avvicinarmi alla verità dell’altro.

Col passare del tempo, però, mi sono accorto che se hai come aspirazione quella di riuscire a parlare a tutti, diventi un problema per molti. Perché tendi a uscire dal seminato, perché dimostri che esiste qualcosa di diverso dallo scontro; quando dicono «Saviano si sottrae al contraddittorio» in realtà stanno dicendo «Saviano si sottrae allo scontro verbale», il che è vero. Diventi un problema perché sfuggi alle categorizzazioni - «Saviano è di sinistra perché parla di immigrazione e di destra perché ha letto Pound ed Evola» - e se sfuggi alle categorizzazioni ti può capitare di disorientare anche la tua community che pare avere un potere enorme, quello di legittimarti o non legittimarti nel racconto. Il potere di decidere se puoi o non puoi affrontare quel determinato argomento in quel determinato modo.

E allora cosa accade al lavoro di uno scrittore e di un giornalista quando i social invadono ogni cosa, quando superano i loro stessi confini, quando la community dei social apprezzando, commentando, criticando, stroncando, insultando finisce per avere il potere di far vacillare il tuo metodo? Accade questo: bisogna sgretolare la community, smettere di considerarla come una massa informe ma senziente e quindi capace di avere delle richieste specifiche, tornare a pensare agli individui che la compongono, immaginarne nomi e volti, storie e percorsi di vita e ritrovare il desiderio di parlare come se stessi parlando a ciascuno, singolarmente.

Nelle ultime settimane ho sentito spesso prendere posizione su ciò che sta accadendo qui negli Usa dopo l’omicidio di George Floyd; ho sentito racconti interessanti introdotti da premesse come questa: «So che non posso provare quella rabbia, ma ugualmente mi accingo al racconto». Ci ho riflettuto a lungo. Ma davvero si può raccontare solo ciò che si vive in prima persona? Davvero dobbiamo giustificarci per avere un’idea su ciò che accade e volerla esprimere? Di cosa abbiamo paura? Che la nostra community che generalmente ci sostiene possa cessare di farlo? Non lo so, quello che so però è che quando le persone a cui parlo smetto di considerarle come un corpo unico, ho la sensazione di poter parlare di ogni cosa e tutto diventa la base per un dibattito che porterà a scoperte preziose.