Proposte per rimediare all’astensionismo di massa. Meno bizzarre di quanto sembrino

Laggiù un prete dice messa, ma ad ascoltarlo non c’è più quasi nessuno. La chiesa è vuota, come la democrazia italiana. Dove il primo partito, un’elezione dopo l’altra, è sempre il partito del non voto. Sicché l’astensionismo cresce, raggiunge la maggioranza assoluta del corpo elettorale, talvolta fa l’en plein. È accaduto, per esempio, il 20 gennaio a Cagliari, per le elezioni suppletive della Camera: affluenza al 15,6%, nonostante gli appelli di tutti i segretari di partito. È successo, per due volte di fila, alle regionali siciliane: sia nel 2012 che nel 2017 il 53% degli elettori è rimasto alla finestra. O in Abruzzo, dove il 10 febbraio la partecipazione al voto è calata di 25 punti percentuali rispetto alle politiche del 2018. E ancora in Sardegna due domeniche dopo l’affluenza si è fermata attorno al 53%. Del resto ogni elezione delle Camere consuma un record negativo rispetto all’elezione precedente, tant’è che dal 1987 in poi i votanti sono diminuiti del 16%.

Da parte nostra ci abbiamo fatto il callo. L’astensionismo è ormai un fenomeno liquidato in due battute il giorno delle elezioni, dimenticato il giorno dopo. Un po’ come la grandine d’inverno, cui ci si rassegna aspettando la primavera. Solo che alle nostre latitudini non è mai primavera, non più. Mentre quest’inverno elettorale esprime una valenza sovversiva e distorsiva, benché i più non se ne rendano conto. L’aveva però compreso Saramago, con il suo “Saggio sulla lucidità”, nel quale raccontava la “rivolta delle schede bianche” per reagire a un potere dispotico e crudele. Non ci ha capito nulla invece Renzi, quando ha gonfiato il petto dopo il 40% del Pd alle europee 2014: in realtà, al netto delle astensioni, quella volta il suo partito prese meno voti rispetto alle politiche 2008.

Insomma, sarebbe tempo di metterci rimedio. Magari senza le maniere forti usate negli anni Cinquanta, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi come scolaretti presso il sindaco, e per sovrapprezzo si beccavano una nota nel certificato di buona condotta. Ma sta di fatto che nessuna assemblea legislativa - né le Camere, né i Consigli regionali - può deliberare quando manchi il numero legale, ossia la metà più uno dei propri componenti; invece il voto popolare è sempre valido, anche se alle urne ci va solo una zia. È il «paradosso dell’uno determinante», che decide in solitudine la composizione del Parlamento e del governo. C’è modo di venirne a capo?

Uno strumento ci sarebbe: il quorum. Vale per il referendum, non per le elezioni. Però nel primo caso una riforma costituzionale promossa dal governo intende ridurlo, prendendo atto del crescente astensionismo elettorale; nel secondo caso si tratta, viceversa, d’introdurlo. Un’idea bislacca? Mica tanto. E comunque non del tutto inedita. La legge elettorale francese del 1919 stabiliva che il voto dovesse ripetersi 15 giorni dopo, se non vi avesse partecipato la metà degli iscritti alle liste elettorali. Tutt’oggi, in Francia, occorre che in ogni collegio voti almeno un quarto del corpo elettorale, per conquistare il seggio al primo turno. Accadeva così pure nel regno d’Italia, dove il quorum era fissato a un terzo degli iscritti nelle liste elettorali, poi a un ottavo (nel 1882), poi a un sesto (nel 1892), infine a un decimo (nel 1912). Mentre in Germania, sempre nel 1919, il numero dei parlamentari era variabile, perché si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e lo stesso sistema fu riproposto in Austria nel 1970.

Ecco, quest’ultima soluzione ci procurerebbe quantomeno un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora i deputati eletti diventano 315, non 630. È la regola fondante delle democrazie, dove il potere deriva dal consenso; sicché a un consenso dimezzato dovrebbe corrispondere un potere dimezzato. Tuttavia non solo nei numeri, anche nelle competenze. Per dirne una, è un controsenso richiedere la maggioranza dei due terzi in Parlamento per cambiare la Costituzione, senza accertarsi che quella maggioranza rifletta davvero il corpo elettorale. E dunque, se questa condizione manca, la Costituzione non si tocca. Un rimedio troppo drastico? Può darsi. Ma se non altro, introducendo qualche concreta conseguenza rispetto alla disaffezione al voto, i politici italiani sarebbero costretti a darsi un po’ da fare.
MICHEL e AINIS