Ci vuole una legge per il referendum.  Che consenta quesiti alternativi. Perché le domande contano più delle risposte

Si faccia una domanda e si dia la risposta, chiede Gigi Marzullo all’ospite di turno. Noi invece, dall’altro lato dello schermo tv, veniamo sollecitati di continuo a rispondere alle domande altrui, sulle quali non esercitiamo alcun controllo, alcun potere d’influenza. Sono le domande che ci pone la politica, sottomettendosi ai nostri desideri. Perché il cittadino è sovrano, perché in democrazia qualsiasi decisione spetta al popolo. E infatti siamo felici di rispondere, non di domandare. Con un voto deposto nell’urna elettorale, con l’applauso che punteggia ogni comizio, con i sondaggi attraverso cui veniamo quotidianamente interpellati.

Ma è un miraggio, un gioco illusionistico. A conti fatti, le domande pesano più delle risposte. Perché le condizionano, le orientano, ne prefigurano gli esiti. Sulla questione fiscale, per esempio. Dove la destra, da Reagan a Berlusconi, ha costruito i suoi successi chiedendo agli elettori se vogliano pagare meno tasse. Arduo rispondere di no, ma la risposta cambierebbe segno se ci venisse chiesto di rinunciare ai servizi dello Stato. O sul dramma dell’emigrazione, per fare un altro esempio. Dove campeggia la domanda del ministro dell’Interno: è giusto contrastare il traffico d’esseri umani su cui prosperano le Ong? Mentre non ha quasi risonanza l’opposta domanda formulata dagli equipaggi di quelle stesse navi: è giusto salvare dal naufragio gli immigrati? La questione è sempre una, ma la domanda è biforcuta come lingua di serpente. E ogni domanda contiene nel suo seno la risposta, anche se noi, per lo più, non ci facciamo caso.

Diceva Ludwig Wittgenstein: porre una nuova domanda non è solo più difficile che dettare l’ennesima risposta ai problemi dell’umanità; è anche, e di gran lunga, più proficuo. Tuttavia, se nella scienza serve un lampo di genio per individuare le domande, nella democrazia serve una procedura. O quantomeno servono luoghi, sedi di scambio e di confronto tra popolo votante e popolo votato. Una volta questa dialettica s’esercitava nelle sezioni di partito, affollate come lidi estivi. Adesso, bene che vada, la folla s’accalca attorno alle primarie, dove puoi solo dire sì all’uno o all’altro candidato. Come succede, d’altronde, rispetto ai referendum. Il contratto di governo si propone di rafforzarne il peso, anzitutto eliminando il quorum di validità, che fin qui ne ha fatto fallire a decine. Lode vole intenzione, però anche in un referendum - come osservò a suo tempo Norberto Bobbio - la domanda conta più della risposta. E allora come restituire, per sempre e per davvero, potere ai cittadini? Con proposte di legge popolare vincolanti, nel senso di garantirne l’esame in Parlamento. O con i referendum propositivi, anch’essi in bella mostra nel programma dell’esecutivo gialloverde. Ma la riforma più potente sarebbe quella in grado di spezzare la tirannia delle domande sulle risposte che ci è consentito formulare, sarebbe uno strumento che ci restituisca la libertà di scelta, finora circoscritta a un prendere o lasciare. Come? Rendendo obbligatorio, per ogni referendum sottoposto agli elettori, un ventaglio di quesiti alternativi. In Italia, del resto, c’è almeno un precedente. 17 maggio 1981: si vota per due referendum sull’aborto, quello promosso dal Partito radicale (per abrogare tutti i limiti e i controlli sull’interruzione volontaria della gravidanza) e quello organizzato dal Movimento per la vita (che viceversa ne restringe l’ambito). Furono ambedue bocciati.

Ma che sarebbe mai accaduto ove entrambi i referendum fossero stati approvati dal corpo elettorale? Un esito contraddittorio, persino indecifrabile, come ammise la Consulta stessa (sentenza n. 26 del 1981), pur accettandone la legittimità costituzionale. Ecco, è per scongiurare questo rischio che adesso serve un intervento di riforma. Stabilendo che in casi analoghi prevale il quesito più votato, ma aggiungendo che i referendum alternativi devono costituire la regola, non già l’eccezione. Se davvero stiamo aprendo una stagione di cittadinanza attiva, di democrazia diretta anziché delegata, questa è l’occasione per provarlo.