Anni fa il conduttore ligure rappresentava un mix innovativo tra pop e cultura. Ora ?è il simbolo di una tv statica e ripetitiva

Gli ultimi mesi della repubblica televisiva italiana sono stati invasi da un flusso elettrico di dichiarazioni, allusioni, considerazioni ed elucubrazioni assortite. Tutte con al centro il seguente tele-protagonista: Fabio Fazio, nato a Savona nel novembre del 1964, autoproclamatosi a un certo punto profeta del gusto medio nostrano. Un tripudio di ragionamenti a vuoto per inquadrare il futuro a breve termine del conduttore di Che tempo che fa. Resterà a sermonare tra le mura di casa Rai dopo la pausa estiva, ci si chiedeva, o fuggirà lontano, considerate le risse sul compenso degli artisti che hanno tramortito per mesi il cavallo di viale Mazzini?

Per un po’ la risposta è stata un mistero. Tanto prolungato, come segreto, da tracimare a un certo punto in noia. Più stimolante, al contrario, ora che s’è spento l’allarme rosso e Fazio resterà a sorridere in viale Mazzini, è valutare quanto il suo addio alla Rai - e non il semplice trasloco quadriennale su Ra1 stimato 11,2 milioni di euro - avrebbe davvero danneggiato dal punto di vista artistico-identitario la tv statale. Discorso che deve partire proprio da Che tempo che fa, anche nell’ultima stagione tempio della massima conservazione della forma e della sostanza. Un’intervista soap(orifera) via l’altra, un’esibizione promozionale via l’altra, fino allo spazio in tandem con Luciana Littizzetto, insuperabile nel credere di essere ancora divertente come nel ventesimo secolo (mentre il pubblico a casa, dimostra anche il pianeta social, è assai meno in delirio rispetto a quello in studio).

Livello creativo dell’intera trasmissione: stretto parente del poco. Oltre che succube della prevedibilità di una struttura chissà per quale ragione inclusa nella categoria dei format originali. Senza dilungarsi, poi, sulla delusione indotta da Che fuori tempo che fa, partito su Rai3 come fonte di allegria collettiva ed arenatosi ormai nel più vischioso dei déjà vu. Un intreccio tra il marzullismo e il fabiovolismo più spinto che non giustifica il pagamento del canone, ma anzi invoca a squarciagola la necessità di idee più robuste.

L’assenza di tutto questo avrebbe sul serio indebolito la Rai? Oppure il trasloco di Fazio avrebbe semplicemente stimolato il direttore generale Mario Orfeo e i suoi dirigenti a costruire un nuovo dialogo con gli spettatori (ammesso che questo fosse e sia un obiettivo preso in considerazione)? Entrambe le risposte hanno diritto di cittadinanza. A patto, però, che sulla scelta di tifare per la permanenza di Fazio in Rai non pesi il bonus conquistato con programmi d’afflato civile come il ricordo dei giudici Falcone e Borsellino. Di personaggi in grado di pensare e condurre simili trasmissioni, infatti, in Rai ce ne sono diversi: partendo, per citare un nome, dall’eccellenza indiscutibile di Riccardo Iacona. Quindi allegria, cari titolari di telecomando. L’atterraggio su un’altra emittente del duo Fazio-Caschetto non sarebbe stata una tragedia artistica per viale Mazzini. Si sarebbe salutato un personaggio certamente abile in passato a miscelare il costume con la cultura e oggi invece titolare di un conformismo statico. Perfetto, va da sé, per continuare a navigare lungo la rotta del successo e della prevedibilità.