L’inchiesta su petrolio e gas in Basilicata  ha portato alla luce le faide feroci nel Pd locale. Tra familismo spinto e clientelismo diffuso

Alzi la mano chi era a conoscenza delle gesta di Vito De Filippo, Pd, ex governatore della Basilicata e da due anni vano sottosegretario alla Salute. Chi aveva mai sentito nominare la gentile signora Rosaria Vicino, Pd, ex sindaca di Corleto Perticara, Potenza, paesotto di duemila abitanti benedetto da ricche royalties del petrolio. E chi aveva seguìto la contesa tra Marcello Pittella, Pd, il suo predecessore alla Regione Basilicata, De Filippo, e la sindaca sua sodàle. Per storie di gas e greggio, of course, e relativa cascata di euri. Ne sapevamo poco e niente, fino a che le intercettazioni della procura di Potenza ci hanno svelato un mondo parallelo – di cui l’ex ministra Guidi e il suo compagno Gianluca Gemelli sono eroi eponimi e prime vittime – fatto di faide feroci, comitati d’affari, clientelismi e familismi. Tutto per l’irrefrenabile corsa all’oro che, come nel Klondyke di fine Ottocento, produce pepite-barili e criminalità varia.

Un mondo privo di regole e controlli. A cominciare dal Pd di Matteo Renzi. I cui cacicchi locali sembrano vestire i panni di Cetto La Qualunque. Rosaria Vicino, per esempio, adesso agli arresti, controllava il territorio grazie ai posti di lavoro ottenuti per gli amici degli amici dalle società incaricate di realizzare gli impianti di Tempa Rossa; il consenso elettorale che ne riceveva era a disposizione di De Filippo, più preoccupato di combattere il nemico governatore che esercitare il mestiere di sottosegretario, che pure di deleghe ne avrebbe (stato dell’assistenza sanitaria nelle carceri e negli ospedali psichiatrici, rapporti con i sindacati, indennizzi alle vittime di malasanità): il racconto che fanno i pm della campagna per le primarie contro il candidato di Pittella, condotta da Vicino con il cellulare di servizio e un incessabile porta a porta a bordo della macchina dei vigili urbani, è esilarante e imbarazzante. In quanto a De Filippo, si sdebita con la sindaca raccomandandone il figlio all’Eni. Se un Fabrizio Barca indagasse su questo Pd, forse lo descriverebbe «cattivo e pericoloso» come quello romano.

Le stesse Regioni, poi, sembrano imperi autoreferenziali, macchine che procedono separate e i cui governatori hanno fatto della riforma del Titolo V della Costituzione, firmata Bassanini, uno strumento di interdizione continua nei confronti del potere centrale e di sfida nel loro stesso partito. Il Pd. Di Pittella e della Basilicata, squassata da faide interne, si è detto. Sulla Campania di Vincenzo De Luca e sulla Sicilia di Rosario Crocetta, galassie lontane, c’è poco da aggiungere alle cronache quotidiane. In quanto a Michele Emiliano, ras della Puglia, è certamente il regista principale di quanto si muove da mesi intorno all’affaire petrolio: è lui il promotore del referendum anti trivelle, ed è sempre lui, che pure si rifornisce di acqua dalla Basilicata, a non volere a Taranto i depositi per il greggio lucano da cui la sua regione non trae benefici. Un Sud (e un Pd) altro dal resto del Paese.

E ancora. Travolta dal conflitto d’interessi della ministra Guidi e dalle mozioni di sfiducia, è passata in secondo piano la vicenda da cui tutto ha avuto origine, l’inchiesta in cui i pm ipotizzano il reato di disastro ambientale per lo smaltimento irregolare, da parte dell’Eni, degli scarti di lavorazione del petrolio. Per questa vicenda il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti è arrivato addirittura a coniare la definizione di associazione imprenditoriale mafiosa, qualcosa di nuovo e di diverso che alligna nella terra di mezzo tra affari e criminalità. Già, ma chi deve verificare emissioni dei fumi ed eliminazione dei rifiuti pericolosi? Solo ed esclusivamente la stessa Eni? Possibile che un aspetto così sensibile sfugga al suo controllo? E perché ogni volta bisogna aspettare che si muova la magistratura? Non ci sono forse organismi regionali ad hoc? O anche questi sono stati risucchiati nel buco nero del malaffare?

Il paese dei lacci e lacciuoli è, per assurdo, anche quello della licenza e dell’arbitrio. In questo deserto di regole certe e di controlli reali, viene da chiedersi che cosa davvero sapessero Matteo Renzi, e Maria Elena Boschi e gli altri ministri del governo, del verminaio lucano, della guerra per bande, degli interessi in gioco, di quelli in conflitto, e dei favori a parenti e amici. C’è da sperare che ne sapessero poco o nulla. Ma forse, per paradosso, questo preoccuperebbe anche di più.

Twitter @bmanfellotto