Gli investitori stranieri nelle aziende italiane sono benvenuti. Purché dietro non ci siano governi ?con intenzioni diverse da quelle puramente economiche
Per i liberoscambisti come chi scrive non c’è discussione: il mercato dei capitali deve essere libero e più le imprese sono contendibili e passano di mano, più sono i benefici per l’economia e la società nel suo insieme.
Proprietari inefficienti o demotivati vengono sostituiti da nuovi investitori, più capaci e motivati. Non solo si creano sinergie, ma si diffonde la tecnica e l’innovazione: quanto di buono c’è nella società acquisita si trasmette al compratore e quest’ultimo avrà tutto l’interesse a diffondere le sue migliori pratiche alla sua nuova impresa. La possibilità di realizzare un guadagno dalla vendita delle proprie partecipazioni azionarie spingerà i soci a dare il massimo, e la prospettiva per i manager di essere congedati dai soci subentranti se inefficienti o premiati se bravi, ridurrà i cosiddetti costi di agenzia, quelli che sorgono per minimizzare la divergenza di scopi tra chi gestisce e chi controlla l’impresa.
Certamente in alcuni casi fusioni ed acquisizioni si rivelano un insuccesso, ma questo fa parte del normale procedere per tentativi ed errori di un’economia libera. È impossibile immaginare che un Grande Pianificatore sarebbe in grado di decidere dalla sua posizione privilegiata ed illuminata quali aziende devono unirsi, quali collaborare e quali rimanere indipendenti. Impossibile immaginarlo, ma nella pratica alcuni governi sembrano avere questa ambizione.
Nonostante ciò, le rimostranze che si sono recentemente levate per l’ingresso dei cinesi in Pirelli assomigliano a quelle già sentite per l’arrivo dei francesi in Parmalat o Bulgari, dei russi in Lucchini o dei giapponesi in Ansaldo.
Sono lamentele che partono dal concetto che l’Italia stia “svendendo” le sue industrie “strategiche” (definizione che ognuno adatta alle sue esigenze, ovviamente) per lasciarle nelle mani di avidi stranieri che o le smantelleranno o priveranno l’Italia del know how finora accumulato. Naturalmente si tratta di esagerazioni che non hanno nulla a che fare con la realtà.
In primis, perché la quota di investimenti diretti esteri in Italia in percentuale al Pil è sotto il 20 per cento mentre la media dei paesi europei sfiora il 50 per cento. Secondo la Commissione Onu sul commercio internazionale (Unctad), anche i flussi in entrata nel 2012-2013 sono stati di appena 17 miliardi di euro (nello stesso periodo il Regno Unito ha attratto 83 miliardi, per dire), laddove quelli dall’Italia all’estero hanno raggiunto i 40 miliardi. Uno studio della McKinsey, peraltro, rileva che se riuscissimo ad avere una media di investimenti esteri annui pari a quella francese (37 miliardi), il nostro Pil crescerebbe di uno 0,6 per cento in più. Quindi la ricetta è attrarre capitali, non spaventarsi quando arrivano.
Rimane un solo dubbio. Noi siamo abituati a pensare al flusso di denaro estero come motivato dalla ricerca di profitto e quindi foriero di miglioramenti per l’impresa italiana acquisita. Tuttavia, da qualche anno si sono affacciati nel mercato delle acquisizioni mondiali dei soggetti nuovi, le società pubbliche e i fondi sovrani, fondi di investimento di proprietà dei governi. Secondo l’Unctad le grandi multinazionali di proprietà statale sono 550 e possiedono beni stranieri per 2.000 miliardi di dollari. Finché tali entità si muovono con logiche industriali e scopo di lucro tutto ciò non rappresenta un problema, né se si limitano ad investire in settori dove c’è piena libertà di accesso al mercato e non vi siano monopoli naturali o produzioni delicate (armi, per esempio). Ma che fare quando la logica di questi investitori diventa politica, vale a dire essi agiscono come fiduciari dei governi dai quali sono posseduti per influenzare le scelte del paese ospite? E se questi governi non sono né alleati né rispettosi del diritto internazionale?
In altre parole è urgente pensare a regole di governance che riducano al minimo pure i conflitti di interessi “politici” oltre a quelli finanziari e commerciali. Senza essere troppo pessimisti, ma in fondo fu Lenin a sentenziare che «i capitalisti ci venderanno la corda con cui impiccarli». Non andò così, fortunatamente: ora infatti la vogliono comprare.