«Fanno ciò che fecero i bretoni quando riempiono di corpi di cittadini inermi i pozzi e le fosse di Cesena. O quel che hanno fatto i soldati di Federico da Montefeltro nel 1472». Il punto dello storico medievale

Eserciti di professione; capi militari privi di ogni scrupolo; soldati pronti a tutto, reclutati anche fra i disadattati e i delinquenti. Per ammazzare, saccheggiare, stuprare, cercare di costruirsi patrimoni personali, a costo di cambiar bandiera e tradire.

 

La Wagner e Evgeny Prigozhin non hanno inventato niente: hanno solo rilevato la tradizione dei mercenari medievali e rinascimentali. Fanno oggi ciò che fanno i bretoni nel 1377, quando, in nome e per conto del Papa, riempiono di corpi di cittadini inermi i pozzi e le fosse di Cesena. O quel che fanno i soldati di Federico da Montefeltro che, nel 1472, devastano Volterra, pagati da Firenze e da Lorenzo de’ Medici, seguendo il copione usuale, interpretato sempre uguale per secoli e secoli.

 

Gli ingaggi (le «condotte»), che per i big sono lucrosissimi, non sempre a loro bastano e qualcuno prova a «sistemarsi» stabilmente: Francesco Sforza, per esempio, che Niccolò Machiavelli cita come prototipo di un signore della guerra che, con le sue capacità, diventa signore di uno Stato. Nel 1425 lo chiama, a peso d’oro, Filippo Maria Visconti duca di Milano, di cui poi Francesco sposa la figlia. Quando il Visconti muore, Sforza si fa avanti per rivendicare il ducato; gabba la neonata Repubblica ambrosiana milanese e, giocando su due tavoli, anche Venezia che conta su di lui per conquistare la Lombardia. Assedia Milano e ne diventa signore. Per passare dall’accampamento al palazzo ducale gli ci sono voluti anni, ma alla fine c’è riuscito.

 

Nei confronti del mestiere delle armi e di chi lo pratica Machiavelli è impietoso: nella sua testa c’è un’idea di istituzione militare che fa a meno dei mercenari. Infidi, delinquenti, taglieggiatori, e, per di più, simulatori. Non hanno nessun interesse a rischiare - commenta - e la loro è una guerra per burla, tanto che in uno scontro c’è stato solo un morto, e perché è caduto da cavallo.

 

Giudizio tanto severo quanto, in parte, giusto e, in parte, invece, strumentalmente falso. A lui, forse, avrebbe potuto rispondere uno dei non pochi condottieri che, per combattere «per burla», ci rimettono la vita: Braccio da Montone, ad esempio, che nella battaglia de L’Aquila (1424) ha il cranio aperto in due da un colpo devastante. O il coetaneo del cancelliere fiorentino e suo concittadino - Giovanni de’ Medici detto Giovanni dalle Bande Nere - che, ferito da un colpo di artiglieria, dopo giorni di agonia e dopo aver subito l’amputazione della gamba, deve arrendersi alla setticemia che se lo porta all’altro mondo nel 1526. Condottieri come questi, per la verità, sono meno tagliagole e scaltri furfanti, rispetto a quelli del Trecento, ma i loro soldati sono quelli di sempre: gli eserciti professionisti «on demand» rimarranno a lungo fatti da farabutti che la vita se la guadagnano lavorando con la morte. Quella degli altri, ma anche quella loro. E quando si lavora con la morte, l’etica e la coscienza sono un lusso che nessuno si permette. Né ieri né oggi