Mettere insieme sovranisti, destra estrema e popolari. Un piano complicato, ma a questo punta Giorgia Meloni per rovesciare la coalizione “Ursula”

Troppi trasformismi, troppi salti di barricata ideologici si frappongono all’idea meravigliosa che Giorgia Meloni si è messa in testa per esportare a Bruxelles il modello italiano di governo. Intendiamoci: a un anno esatto dalle elezioni europee un’avanzata poderosa della destra, persino dell’estrema destra, è oggi pronosticabile. Ma intanto in politica un anno è un tempo infinito e poi la declinazione delle destre nel Vecchio Continente ha sfaccettature diverse e persino contrastanti. E dunque può risultare più arduo armonizzare una comunità d’intenti a differenza di Roma dove la presa del potere ha saldato ogni differenza.

 

Non per caso, la nostra maggioranza di governo è frazionata in Europa in tre gruppi diversi. Forza Italia sta nel Ppe, il partito popolare, Fratelli d’Italia nell’Ecr, il partito dei conservatori e dei riformisti, la Lega nell’Id il partito identità e democrazia. E non si tratta semplicemente di sigle ma di natura profonda.

 

Il partito popolare è, assieme all’area socialista, spina dorsale di un forte europeismo. Giorgia Meloni si trova a dover convincere e sdoganare, perché la sua idea abbia un minimo di successo, formazioni fortemente euroscettiche, alcune con venature xenofobe quando non apertamente razziste, e nostalgiche di un passato dittatoriale.

 

Come nel caso degli spagnoli di Vox di Santiago Abascal i cui raduni sono molto frequentati dalla nostra premier. E mal si conciliano con il moderatismo dei popolari di Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione, i sovranismi esibiti dai polacchi del PiS e dai colleghi dell’Est Europa oltre che dai Democratici svedesi.

 

Ancora più ostico l’aggancio della Lega di Matteo Salvini e dei suoi alleati tra cui spiccano il Rassemblement National di Marine Le Pen, i populisti dell’Fpo austriaco e gli indipendentisti fiamminghi. Mentre pare impossibile imbarcare gli impresentabili tedeschi dell’AfD con forti venature neonaziste e dati in grande crescita di consensi.

 

Tutto questo ammesso e non concesso che Giorgia Meloni stessa, l’architetto della faticosa costruzione, nonostante gli sforzi, sia stata accettata nel novero delle forze pienamente democratiche. A otto mesi dal suo ingresso a Palazzo Chigi permangono dubbi e reticenze visti gli infortuni nostalgici in cui incorrono vari membri del suo esecutivo. Visto, anche, un rapporto spesso conflittuale con le istituzioni comunitarie su temi cruciali quali il Pnrr, il Mes, l’immigrazione, i balneari. Per non dire della postura muscolare, insofferente delle autorità di garanzia, tale da prefigurare uno sbocco verso una democrazia illiberale come quella teorizzata da un suo modello ideologico, il presidente ungherese Viktor Orbán.

 

Troppi rospi dovrebbe dunque ingoiare il Partito Popolare per farsi garante di un’alleanza così eterogenea (eufemismo) e abbandonare l’asse con i socialisti che ha permesso il nascere della “maggioranza Ursula” della legislatura in atto che ha almeno il minimo denominatore comune di un’adesione senza remore all’idea comunitaria. Vi potrebbe essere costretto davanti alla catastrofe delle formazioni di sinistra e di centro-sinistra e nell’impossibilità di dare un governo all’Europa. Sarebbe una svolta epocale foriera di conseguenze allo stato impronosticabili. Intanto perché segnerebbe la sconfitta dell’asse franco-tedesco su cui l’Europa si è retta (a Parigi comanda il centrista Emmanuel Macron, a Berlino il socialdemocratico Olaf Scholz). E poi perché si sente ancora l’eco di slogan popolari sino a ieri (solo fino a ieri?) tra le destre sovraniste. Vincere in Europa per minarla dall’interno o, al minimo, limitarne i poteri e fermare il processo di una maggiore integrazione.