Si chiama Fondo salva Stati, ma serve soprattutto per le crisi bancarie. Il governo ha provato a farne merce di scambio con Bruxelles. Con pochi risultati. E ora si va verso l’approvazione

E’ stato oggetto dei giocolieri più spregiudicati, che ne hanno falsificato le origini storiche, ne hanno cantato le virtù malefiche, è sembrato quasi uno strumento finanziario vicino al mondo delle streghe da bruciare». Non ci crederete ma a esprimersi in questa prosa gotica, sicuramente inusuale visto il personaggio, è stato Mario Monti in Parlamento poche settimane fa. Oggetto di tanto esorcismo: il Mes.

«L’ultimo passo che ci resta da compiere verso la razionalità», come il senatore-professore ha definito la sofferta approvazione da parte dell’Italia della riforma del fondo salva Stati (Mes=Meccanismo Europeo di Stabilità), ora pare vicino. Il 30 giugno, dopo anni di polemiche e uno scontro con Bruxelles arrivato allo zenit, è finalmente calendarizzata alla Camera la discussione sull’agognata ratifica. L’Italia arriva ultima fra i venti Paesi dell’euro. Perfino la Croazia, entrata nella moneta unica il 1° gennaio 2023, ha avuto il tempo di superarci.

Ma quale trattativa con l’Europa c’è stata? Quale posta è stata messa in gioco al momento di abbassare finalmente il chip del Mes? Le modifiche al Pnrr e lo sblocco della terza rata? La flessibilità del Patto di Stabilità che entrerà in vigore all’inizio del 2024? La candidatura dell’ex ministro Daniele Franco alla presidenza della Banca europea degli investimenti? Il posto nel board della Bce che si renderà libero quando in novembre Fabio Panetta sarà nominato governatore della Banca d’Italia? «L’approvazione della riforma del Mes è diventata merce di scambio», conferma Carlo Cottarelli. «Il governo, prigioniero della sua retorica anti-Mes, per accettarlo si è messo in testa di ottenere qualcosa da Bruxelles. Tutto questo è paradossale se si pensa che la riforma non introduce cambiamenti fondamentali tranne la possibilità di usare le risorse del fondo per le crisi bancarie, che peraltro è utilissima per noi».

Quest’ultima, la più innovativa fra le innovazioni della riforma, la spiega Lorenzo Bini Smaghi, economista di scuola Bankitalia, già membro del board della Bce: «Si tratta di integrare con risorse aggiuntive la dotazione del Fondo Unico Europeo per la risoluzione delle crisi bancarie, che ha oggi una capienza di 55 miliardi, in casi riconosciuti dalla Bce». Si potrebbe approntare un’efficace «rete di sicurezza», come l’ha definita il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, all’ultima assemblea del 31 maggio.

«Sarebbe importante visti i recenti fenomeni di instabilità del settore bancario, in Paesi fuori dall’euro», ha aggiunto Visco: il riferimento è alle crisi di Credit Suisse e delle banche americane. «Proprio sul modello americano - riprende Bini Smaghi - si conforma l’ultimo tassello di questa catena virtuosa: una volta approvato il Mes, conseguita l’adesione al Fondo di risoluzione, si potrà completare l’Unione Bancaria Europea che quindi offrirà un paracadute efficace per i depositanti in caso di crack bancari. Come vedete, non si tratta di salvare le banche come dicono i detrattori del Mes, ma i risparmi dei cittadini».

I fondi assicurativi nazionali non garantiscono che i depositi fino a 100mila euro, in America la Federal Deposit Insurance Corp arriva a 250mila e si sta discutendo di estendere la garanzia fino a renderla universale.

Il Mes ha una “potenza di fuoco” di 704 miliardi di euro e un capitale di 80,5 miliardi già versato da tutti i Paesi dell’euro compresa l’Italia (ennesimo motivo per non tirarsi indietro). «Ci sono abbastanza risorse - commenta Marcello Messori, economista della Luiss - per coprire, oltre al fondo bancario (per il quale è previsto un contributo massimo di 65 miliardi, ndr), le attività originarie del Mes di fondo salva Stati». Anche qui ci sono modifiche di rilievo: «Si razionalizza l’operatività su due livelli», spiega Messori. «C’è un prestito cautelativo in caso di difficoltà temporanee di un Paese. E ce n’è uno più strutturale quando un Paese perde l’accesso ai mercati e non è più in grado di far fronte agli oneri finanziari. Solo in questo caso è previsto un memorandum of understanding, un accordo negoziato con l’Europa sulle condizioni a cui il Paese ha accesso ai fondi».

C’è una differenza rispetto alle passate esperienze che hanno riguardato Portogallo, Cipro, Irlanda, Grecia e in misura limitata Spagna: «Non esiste più la Troika con la Bce e il Fondo Monetario ma il controllo è accentrato presso la Commissione, in grado garantire un’interlocuzione politica più costante e meno vessatoria. L’impegno è di non ripetere più gli errori e gli eccessi di severità dei precedenti interventi».

Non è finita: al Mes spetterà l’analisi preliminare e il via libera alle Omt (Outright Monetary Transactions), l’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà macroeconomica conclamata. È lo strumento annunciato da Mario Draghi nell’estate 2012 con il celeberrimo “Whatever it takes” che fece la magia di stoppare le speculazioni. Una misura mai utilizzata: d’altronde non era possibile utilizzarla (ma in dieci anni i mercati non lo hanno capito) in mancanza di un Mes efficiente.

Basta questo a evidenziare l’urgenza della riforma. «Non bisogna però stupirsi se il Mes sia finito nel tritacarne delle trattative», obietta l’economista Innocenzo Cipolletta. «Siamo realisti: in qualsiasi confederazione è naturale che si finisca con lo scambiare una posizione con un’altra. Certo, va fatto con fair-play, senza dissipare il proprio tesoretto reputazionale scivolando sui ricatti». Il 30 giugno, la verifica.