A Smirne confluiscono sempre più siriani, afgani, iraniani. Tra razzismo, crisi economica e politiche ostili, le condizioni di vita nel Paese diventano sempre più dure per loro. Perciò scappano, via terra verso la Bulgaria o via mare verso l’Italia. Pagando i trafficanti e rischiando la morte

La notizia del naufragio di Cutro, in Calabria, è arrivata tra le strade di Smirne, in Turchia, ma non sembra che stia avendo delle ripercussioni sull’organizzazione delle partenze clandestine dei migranti. In città sono tornati i turisti e con il clima mite i tavolini dei bar si sono riempiti di gente, ma c’è anche un altro tipo di fermento. «Di recente sono arrivati qui molti rifugiati. Dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran. Ma pure tanti che per mesi o anni hanno vissuto in altri luoghi della Turchia», racconta Ayşegül Karpuz, avvocatessa che si occupa di migranti e diritti umani: «Man mano che le condizioni di vita in questo Paese diventano più dure per loro, sempre più persone pensano di andar via, con qualunque mezzo».

Non ci sono stime esatte di quanti siano i migranti pronti a partire verso l’Europa, certamente però sanno tutti che il rischio di perdere la vita, per terra o per mare, è altissimo. Eppure, le partenze sono cadenzate, quasi una a settimana, con un calendario gestito da una rete di trafficanti che si snoda dall’Afghanistan fino alle coste tra Smirne ed Edirne.

«Quest’anno assisteremo a un aumento del numero di migranti dalla Turchia verso l’Europa, per diversi motivi», spiega Tareke, un giornalista siriano che vive da anni a Smirne: «Prima di tutto c’è il problema del razzismo e del crescente incitamento all’odio nei confronti di siriani e afgani. Poi ci sono i problemi economici del Paese, il terremoto che ha riversato ancora più profughi sulle coste e una questione politica».

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, la campagna elettorale è diventata incandescente, soprattutto sul tema dei rifugiati interni. E l’oppositore di Recep Tayyip Erdogan, il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, ha dichiarato che sta negoziando un accordo con Bashar al-Assad affinché tutti i siriani siano obbligati a tornare in patria. Il panico per l’eventualità ha spinto migliaia di rifugiati a scappare. «Poi ci sono centinaia di afgani che stanno arrivando qui perché non riescono più a vivere nelle fogne della città di Van e desiderano raggiungere la Germania o il Belgio. Magari per ricongiungersi con famigliari e amici. E allora pagano un contrabbandiere che li porti fino a qui e che li nasconda, in attesa dell’appuntamento per la partenza», spiega ancora Tareke.

Grazie alla sua mediazione, il giornalista permette di parlare con un ragazzo afgano in attesa di partire con un barcone. Dice di chiamarsi Rafih e di aver dovuto pagare quasi duemila dollari per poter arrivare dal confine iraniano a Smirne: «Siamo passati per Çaldiran, eravamo 30 ragazzi. Ci siamo fermati a Van e poi abbiamo proseguito di notte. Abbiamo fatto molte tappe e non ricordo tutti i nomi dei villaggi. Alla fine siamo arrivati a Smirne, dove aspetto di sapere quando potrò partire».

Con lui ci sono 56 persone, tra cui donne con bimbi piccoli, e nessuno vuole fermarsi in Italia. «Per loro il viaggio prosegue, non è l’Italia il punto d’arrivo», riprende Tareke. Molti dei ragazzi hanno sul telefono una specie di itinerario che prevede di lasciare il nostro Paese oltrepassando il confine con la Francia a Ventimiglia o a Claviere, oppure da Milano, a seconda della stagione, delle forze, del punto di arrivo, dei controlli. Se tutto va liscio, l’ultimo tratto è a spese solo della propria pelle.

Chi decide d’imbarcarsi per raggiungere l’Italia lo fa dall’area di Smirne. I luoghi di partenza sono segreti fino all’ultimo anche per i migranti e cambiano sempre. Ma tendenzialmente sono lungo la costa boscosa, così le persone possono nascondersi prima di correre lungo la spiaggia e salire a bordo.

«Di solito, con un piccolo gommone portano i migranti su una grossa barca a vela o su un motoscafo che aspetta al largo», racconta Hikmet Kara che lavora con una Ong a Smirne: «Li radunano dai diversi punti di raccolta. Poi, quando sono al completo, partono e proseguono diritti per tre-quattro giorni. Spesso, a metà strada aspetta un caicco di legno e le persone vengono trasbordate da un’imbarcazione all’altra. Il barcone di legno prosegue il viaggio, mentre la barca a vela o il motoscafo tornano indietro con il trafficante. Noi cerchiamo di dissuaderli e spieghiamo quali sono i rischi, ma sono persone disperate, traumatizzate, che non hanno nulla più da perdere». Fino allo scorso agosto capitava che arrivassero sulle coste della Calabria delle imponenti barche a vela, poi abbandonate al porto di Roccella Jonica. Ma con l’incremento dei flussi, il giro delle imbarcazioni è cambiato.

I migranti che, invece, vogliono intraprendere la rotta balcanica si recano a Edirne, da cui è possibile raggiungere la Bulgaria. Pochi chilometri che possono voler dire altre settimane di attesa per passare il confine militarizzato. «La polizia bulgara è molto violenta e spesso i migranti devono pagare altri trafficanti», spiega Cavidan, un’attivista dei diritti umani: «I quali, però, hanno un’organizzazione diversa da quelli che hanno portato i ragazzi fino alla Turchia». Preferiscono essere pagati in contanti, mentre la rete che opera tra Afghanistan e Turchia usa un altro modo.

A raccontarlo è ancora Rafih: «Non diamo mai l’intera somma al trafficante, ma a un garante che paga gli altri contrabbandieri via via attraverso la hawala (sistema di trasferimento di denaro non ufficiale, basato su un codice di segretezza e d’onore, ndr). Io, per esempio, dovrò sbloccare l’ultimo pagamento quando sarò arrivato». Rafih non sa quando il barcone salperà verso l’Italia ed è consapevole dei pericoli. Ma la scelta è tra morire di sicuro o rischiare di morire per arrivare in Europa: «Deciderà il destino».