Il rientro di deficit e debito andrà negoziato e sarà quindi fondamentale aver buoni rapporti con Bruxelles. Al governo di destra conviene cambiare atteggiamento

Se Palazzo Chigi non avesse ancora incaricato una società di pubbliche relazioni per ricostruire il rapporto con l’Unione Europea, dovrebbe farlo in fretta. Mes, balneari, Pnrr, giustizia, etichette su vino e alimentari, tassi della Bce: il “cahier des doléances” delle polemiche aperte dal governo italiano con Bruxelles (e Francoforte) si allunga ogni giorno. Eppure l’Italia, non si stanca di ricordare il presidente Sergio Mattarella, dovrebbe essere parte e non controparte dell’Europa. Ma ora l’imperativo diventa categorico perché è partito il negoziato per il nuovo Patto di Stabilità, il più importante documento finanziario dell’Ue. Sospeso per il Covid, sarà riattivato dal 1° gennaio 2024, ed entro l’estate il lavoro preparatorio sarà completato.

 

La commissione ha delineato le basi: verranno confermati, perché scritti nei trattati, i vincoli del 3% sul deficit/Pil e del 60% per il debito/Pil. Vista però la distanza dalla realtà odierna (debito/Pil al 149% in Italia), scompare la regola-capestro per cui si doveva ridurre di un ventesimo il debito ogni anno per la quota eccedente il 60%, l’equivalente di una manovra da 40 miliardi l’anno. Non a caso questa regola non è stata mai attuata. Ora niente schemi fissi, ma una trattativa caso per caso in cui si concorda con la commissione, viste le condizioni oggettive di ogni Paese, il timing per il rientro dal debito nonché, sulla base delle specifiche esigenze, gli investimenti da fare e quali eventualmente stornare dal computo. Per recuperare credibilità, la commissione imporrà pesanti penalità per i trasgressori, reputazionali e patrimoniali: si potrà arrivare allo stop ai fondi europei compresi quelli del Pnrr. Insomma è fondamentale arrivare alla fase finale del negoziato con un buon “feeling” con l’Unione, minacciato da tutti gli episodi prima citati: un banco di prova cruciale per il governo.

 

Va detto che, ferma restando l’opportunità di buoni rapporti, diversi prestigiosi economisti indipendenti sono perplessi sulle nuove modalità del Patto. «È la trasformazione di una procedura che doveva salvaguardare l’Ue da comportamenti devianti, in una misura di governo economico centralizzato che mette nelle mani della Commissione poteri senza precedenti di controllo delle politiche nazionali», obietta Stefano Micossi della Luiss. Il modello è quello dei Pnrr: «Ma lì i Paesi hanno accettato di legarsi le mani in cambio di generosi fondi. Qui si chiede a quanti sono indebitati un nuovo assetto». C’è comunque chi conta sul “ravvedimento” del governo Meloni, dopo i fuochi d’artificio anti-europei iniziali: «Alla fine il Mes è stato approvato, la manovra di fine anno ha rispettato i saldi di bilancio ed è stata licenziata senza problemi da Bruxelles, per il Pnrr siamo riusciti a rispettare le scadenze», riflette Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore ed ex commissario all’Industria. «Si può ragionevolmente sperare che il negoziato sul nuovo Patto avvenga su una base di reciproca fiducia».

 

La questione è complicata da un fattore strettamente connesso, gli aiuti di Stato: anche il divieto ai Paesi membri di ricorrervi è stato sospeso per il Covid, e sta per essere ripristinato perché è previsto anch’esso dai trattati costitutivi dell’Unione. Ma non mancano le polemiche, coincidenti con l’inaspettata concorrenza americana sul terreno degli interventi pubblici. È difficile tornare indietro: nel 2022 Bruxelles ha autorizzato 170 richieste di aiuti per 540 miliardi. Metà è stata versata alle proprie imprese dalla Germania, il 30% dalla Francia e gli altri 25 mercati si sono dovuti spartire il restante 20%. L’Italia ha avuto l’autorizzazione per aiuti straordinari per il 4,7% del totale. Ma ancora una volta il nostro Paese è al centro dell’attenzione: deve decidere se appoggiare l’asse franco-tedesco che chiede il “liberi tutti” sugli aiuti di Stato visto che può permetterselo, e l’eterogenea compagine dei Paesi minori (Danimara, Finlandia, Polonia e così via) che di tale disponibilità di bilancio sono privi. C’è il pericolo che i due “soci forti” dell’Europa prendano buona nota dell’atteggiamento di Roma e immaginino eventuali ritorsioni in sede di rinnovo del Patto di Stabilità.

 

È come una partita a scacchi. Che non sia fantapolitica lo prova un precedente: nel 2003 l’intervento italiano scongiurò la procedura d’infrazione contro Francia e Germania perché, proprio loro, avevano violato il Patto sforando il deficit. Nel 2012 Parigi e Berlino, memori dell’episodio (e grazie ai buoni uffici di Mario Monti), ci restituirono la cortesia avallando la politica monetaria “accomodante” della Bce che salvò l’Italia (e l’euro).

 

Alla Bce, peraltro, si rivolgerebbero di nuovo i Paesi che dovessero finire in crisi per il mancato rispetto del nuovo Patto. Però è un’“altra” Bce: chiusa l’era del quantitative easing è iniziata quella dei rialzi dei tassi nonché dello smobilizzo delle posizioni accumulate. Si hanno, è vero, nuovi strumenti per fronteggiare le emergenze come il Tpi (Transmission protection instrument), un programma di acquisto di titoli “personalizzato” (rivolto solo a un Paese): però per accedevi va superato lo scrutinio di Bruxelles e della stessa Bce. Ecco che ancora una volta contano le buone relazioni coltivate da ogni governo. Il Tpi si aggiunge, con modalità simili, al Mes e alle Omt (Outright monetary transactions), le protagoniste del “whatever it takes”: alle Omt si riferiva Draghi quando nel 2012 annunciò che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l’euro. Non sono servite, almeno finora.