Nella regione indipendentista ci si prepara a un imminente attacco da parte dell’Azerbaigian, che potrebbe approfittare dell’attenzione di Mosca concentrata sull’altro fronte. E l’Armenia non è pronta alla difesa

In Armenia il terzo brindisi è per chi non c’è più, per coloro che ci hanno preceduto e ci hanno permesso di essere qui a raccontare. Ogni famiglia ha i suoi, morti durante il genocidio perpetrato dai turchi a inizio Novecento, in terra straniera in seguito alla diaspora o nei conflitti degli ultimi trent’anni. Nei primi giorni della guerra dell’autunno 2020 tra le montagne del Nagorno-Karabakh i soldati armeni brindavano agli eroi del ’92, quelli che avevano combattuto contro l’Azerbaigian e avevano vinto. Oggi si toccano i bicchieri sommessamente, non ci sono vittorie da festeggiare e i civili temono lo scoppio di un nuovo conflitto.

 

Lo temono perché sanno che l’esercito armeno non è pronto, così come non lo era due anni fa quando Baku decise di riprendersi il territorio separatista filo-armeno e seminò il panico con i droni turchi Bayraktar tb2. Gli stessi droni che oggi Ankara vende all’Ucraina, elogiati in ogni occasione dallo Stato maggiore di Kiev, erano il terrore di ogni soldato di fanteria armeno. «Non sono come gli aerei», raccontava Artem in un bar di Erevan, «non senti il rombo dei motori e quindi non ti accorgi che arrivano; poi d’improvviso senti un sibilo e allora hai pochi secondi per saltare da qualche parte prima che l’ordigno colpisca». Artem insieme ad altri tre commilitoni dalla scorsa guerra festeggia quello che chiama il «secondo compleanno”. «Eravamo nella nostra postazione di mattina presto, mi erano stati assegnati tre soldati per il turno di guardia e perciò ci stavamo allontanando dal campo-base», poi il missile è arrivato e ha sorpreso la maggior parte dell’unità nel sonno. «È stata una strage, ci siamo salvati solo noi».

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È una terra senza pace, il Nagorno-Karabakh. Una storia di assegnazioni arbitrarie e ripensamenti che risale agli anni Venti dello scorso secolo ma che esplode nel 1991, quando la regione si dichiara indipendente dall’Azerbaigian e assume l’antico nome armeno di “Repubblica dell’Artsakh”. L’Azerbaigian non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa, ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh. Fino all’autunno del 2020, quando una poderosa offensiva delle truppe azere con il supporto logistico e pratico turco riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filo-armeno.

 

A collegare l’ex capitale indipendentista al territorio armeno oggi rimane solo il cosiddetto “Corridoio di Laçin”: una lingua di terra di cinque chilometri che prende il nome della città di confine da cui parte l’unica strada rimasta agli armeni in Artsakh. A presidiarla ci sono i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il “cessate il fuoco”. Duemila per cinque anni, stando agli accordi ufficiali post bellici, di più secondo fonti ufficiose.

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Ma ora i russi sono impegnati in Ucraina e a Baku devono aver deciso che è il momento propizio per completare l’opera di riconquista del Nagorno-Karabakh lanciando l’“operazione castigo”. Il ministero della difesa azero ha chiesto il completo disarmo dell’esercito di difesa della Repubblica dell’Artsakh e il ritiro delle unità armene dalla regione. Erevan, dal canto suo, accusa i vicini di cercare solo un casus belli.

 

L’obiettivo sembra essere la conquista di nuove alture strategiche e l’occupazione del “corridoio di Laçin” in modo da tagliare fuori Stepanakert. Ma lì ci sono i russi. Se da un lato il grande sforzo bellico che il Cremlino sta sostenendo dall’inizio dell’anno in Ucraina mina le possibilità di risposta immediata russa, dall’altro Putin non può permettere che il fragile equilibrio del Caucaso sia compromesso. Sarebbe un precedente troppo pericoloso per le tensioni crescenti in altre zone dell’Asia continentale, come l’Uzbekistan. Per questo da subito fonti vicine al ministero della difesa russo hanno definito il Nagorno-Karabakh un “secondo fronte” dichiarando che mobiliteranno le forze di pace dispiegate nell’area e si hanno già notizie di schermaglie tra russi e azeri. È significativo notare i toni usati dal Cremlino nei comunicati ufficiali: «Esortiamo a dare prova di moderazione, a rispettare il regime di cessate il fuoco, a risolvere le contraddizioni esclusivamente con mezzi politici e diplomatici, in stretta conformità degli accordi tripartiti del novembre 2020». Queste frasi vengono dall’ufficio del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, lo stesso che minaccia l’allargamento del conflitto ad libitum in Ucraina.

 

Per far fronte alla minaccia, l’Artsakh ha indetto la mobilitazione parziale dei propri effettivi, tuttavia, il governo filo-armeno sa che finché i cieli saranno sotto il pieno controllo dei droni azeri è impossibile riuscire a resistere a lungo. L’esercito russo ha dislocato alcuni elicotteri d’assalto Ka-52 nella propria base di Erebuni, in territorio armano, ma al momento non sono giunte notizie sul loro effettivo impiego. Anche l’Iran guarda con preoccupazione all’aggravarsi della situazione e ha dislocato nuove truppe al confine con l’Azerbaigian. Il presidente americano, Joe Biden, nonostante le simpatie dimostrate in passato per gli armeni e il riconoscimento ufficiale del genocidio del 1915, stavolta si è rivolto al suo omologo azero, annunciando la disponibilità di Washington a promuovere la cooperazione diplomatica tra Baku e Erevan. Jeyhun Bayramov, ministro degli Affari Esteri azero ha fatto sapere al vice segretario di Stato americano per gli Affari europei ed eurasiatici, Karen Donfried, che, contrariamente agli obblighi derivanti dalla dichiarazione tripartita del 10 novembre 2020, «le forze armate armene non sono state completamente ritirate dal territorio dell’Azerbaigian».

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A oggi la tensione si è placata con un nuovo accordo che impone all’Armenia di abbandonare il corridoio di Laçin e di costruire una strada alternativa a 3 km di distanza entro la fine del mese, l’Azerbaigian ha fatto sapere di aver già costruito la sua. Ma quanto durerà questa nuova tregua? L’unica speranza per gli armeni dell’Artsakh è che gli interessi comuni di Russia e Turchia, mai così vicine negli ultimi anni, fermino Aliyev. L’Armenia è al centro di una complessa rimodulazione del potere nella zona caucasica e in Medio Oriente e non può essere un caso se proprio quest’anno, con la guerra in Ucraina al suo culmine, Ankara abbia avviato un tavolo per aprire i confini con Yerevan e normalizzare i rapporti diplomatici. Alcuni analisti teorizzano che dietro questa apertura ci sia la necessità di creare una nuova rotta commerciale via terra che dal Mediterraneo entri in Russia attraverso il Caucaso e data l’ostilità della Georgia verso Mosca, l’Armenia diventerebbe un punto di passaggio obbligato.

 

È strano come cambia la prospettiva a seconda del punto di osservazione scelto: nel 2020 in Armenia si attendeva l’intervento russo come una salvezza, lo si invocava a gran voce come unica possibile svolta di un conflitto già segnato in partenza. La Turchia era il deus ex machina dei nemici mentre al momento si pone come unico interlocutore di un possibile tavolo di pace. Nessuno in Occidente si sognava di schierarsi apertamente a favore di una delle due parti; il rischio era quello di perdere le forniture di gas azero. Mentre l’Azerbaigian del discusso presidente Ilham Aliyev, in carica ininterrottamente dal 2003 e succeduto al padre, Heydar Aliyev, che aveva governato per i dieci anni precedenti, modernizzava l’esercito e stringeva accordi con Ankara, Erevan scendeva in piazza chiedendo le dimissioni del primo ministro armeno Serž Sargsyan, nominato per la terza volta.

 

Per settimane decine di migliaia di persone avevano occupato le strade di Erevan chiedendo le dimissioni di Sargsyan. Ne emerse la figura di Nikol Pashinyan, ex giornalista che si vantava della propria estraneità al mondo dei “palazzi del potere”, alla corruzione degli oligarchi filo-russi e invocava riforme che avrebbero portato l’Armenia verso l’Unione Europea e l’Occidente. I quali promettevano promettevano e chiedevano di adeguarsi ai “valori” democratici. Breve sogno, interrotto da scelte poco oculate e da speranze disattese.

 

Poco dopo l’Azerbaigian ha attaccato e l’esercito armeno si è trovato a dover rispondere al fuoco di armi ultra-moderne con lanciarazzi di epoca sovietica. La solidarietà è arrivata solo dalle famiglie di emigrati e persino i pochi aiuti che Mosca inviava erano rallentati dalla chiusura dei cieli decisa dalla Georgia che obbligava i voli russi a deviare nel Mar Caspio e a risalire dall’Iran. Impossibile non vedere le numerose analogie con la storia recente dell’Ucraina. Eppure in questo caso, come nel 2020, la comunità internazionale resta immobile derubricando ancora una volta il Nagorno-Karabakh a conflitto regionale. Poco importa se anche qui i civili continueranno a morire e i brindisi alla memoria si aggraveranno di nuovi caduti da piangere.