Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’India alla Francia, la sfida sulla protezione delle informazioni digitali sta impegnando i governi di quasi tutto il mondo. In ballo ci sono sicurezza e controllo

Si dice da tempo che i dati siano il nuovo petrolio, il bene più prezioso al mondo, sebbene non siano né rari, né complicati da trovare. Ogni nostro movimento online lascia tracce digitali, dati, e se sommati a quelli che possono essere estratti mentre non siamo in Rete (basti pensare alle telecamere di sorveglianza) nel mondo vengono prodotti infinità di dati ogni giorno. A questi si sommano poi quelli di governi, amministrazioni, apparati burocratici, militari, intelligence. Oggi i dati costituiscono il fulcro di numerose attività e sono alla base di parecchi settori della nostra vita. Perfino nello sport ormai sono utilizzati quotidianamente, sull’onda di “Moneyball”, un film del 2011 con protagonista Brad Pitt, nel quale un dirigente di una squadra di baseball, l’Oakland Athletics, creò un miracolo sportivo comprando atleti sulla base di una rigorosa analisi dei dati di ogni giocatore degli Stati Uniti.

 

I Big Data oggi rivestono un’importanza ancora maggiore per gli Stati. Le principali sfide geopolitiche del futuro riguarderanno le capacità di ogni singolo Stato di utilizzare al meglio questo patrimonio. Perché i dati sono la benzina di intelligenza artificiale e algoritmi, alla base dei concetti di “smart city” e dello sviluppo tecnologico oscillante tra uso civile e militare. Chi ha più dati ha più capacità di sviluppare “AI” e servizi connessi (auto a guida autonoma, satelliti, sistemi di controllo di traffico e ambientale e tanto altro). 

 

Ma i dati assumono anche una rilevanza fondamentale sia per le politiche interne sia per quelle internazionali, nella governance degli Stati. L’utilizzo, l’analisi e la difesa dei Big Data ha dato luogo a un concetto di cui si discute da tempo, la «sovranità digitale». Con il termine si intende sia un’autosufficienza tecnologica (così la interpreta ad esempio l’Unione Europea), sia una protezione dei Big Data per questioni di sicurezza nazionale.

 

Il concetto ha avuto una sua realizzazione piuttosto esplicita in Cina, dove da tempo si discute di come far coincidere la Rete con il territorio, assumendo come punto di partenza il concetto secondo il quale lo spazio virtuale debba sottostare alle stesse leggi dello spazio fisico. Pechino da tempo ha posto la sovranità digitale come pietra angolare della propria data driven governance: da un lato la Cina vuole sviluppare una digitalizzazione di tutti i suoi servizi per mettere ordine nell’infinità di dati raccolti dal governo (sia per regolamentare l’ecosistema economico, come ad esempio il controverso «sistema dei crediti sociali», sia per scopi di puro controllo sociale), dall’altro, per la prima volta, ha proposto una classificazione dei dati associata alla «sicurezza nazionale» con una legge ad hoc sulla «sicurezza dei dati».

 

Fin dal 2017 con la legge sulla cybersecurity, Pechino ha imposto alle aziende di lasciare i dati raccolti in Cina su server cinesi. La nuova legge sulla sicurezza dei dati amplia lo spettro dei Big Data sottoposti al rigoroso controllo dell’amministrazione e alla necessaria protezione statale. Dire Cina significa dire Stati Uniti e il confronto tra le due super potenze sembra giocarsi anche su questo piano, dando luogo a una «geopolitica dei dati» che potrebbe riservare non poche sorprese. Sarà dura da digerire, ma perfino negli Stati Uniti ormai si mette in discussione la libera circolazione dei dati che ha segnato un’epoca che pare ormai essere terminata.

 

Le conseguenze possono essere di diversa natura e il rischio è che la nuova protezione «territoriale» dei dati possa dare vita a una sorta di varietà di mondi tecnologici, ovvero Paesi nei quali - ad esempio - alcuni servizi delle grandi piattaforme non funzionano perché prevedono un passaggio transfrontaliero dei dati o nei quali alcune app non si trovano. L’India sta pensando a una legge sulla sicurezza dei dati molto simile a quella cinese e tempo fa aveva “chiuso” il suo spazio virtuale a molte applicazioni cinesi. Sommando questa tendenza ad altre in corso, come ad esempio la futura lotta sugli standard di Rete o la possibilità di un disaccoppiamento tecnologico tra Cina e Stati Uniti, il futuro potrebbe portarci a sistemi completamente diversi.

 

Come riportato dal New York Times «l’era delle frontiere aperte per i dati sta finendo. Francia, Austria, Sud Africa e oltre 50 altri Paesi stanno accelerando gli sforzi per controllare le informazioni digitali prodotte dai loro cittadini, agenzie governative e società. Spinti da problemi di sicurezza e privacy, nonché da interessi economici e impulsi autoritari e nazionalistici, i governi stabiliscono sempre più regole e standard su come i dati possono e non possono spostarsi in tutto il mondo». Negli Usa - come in Cina e in India - si discute sulla possibilità di «blindare» alcuni dati al territorio americano con particolare attenzione alla possibilità che a metterci le mani sopra siano i cinesi, ma non solo.

 

Di recente l’amministrazione Biden starebbe pensando a un decreto per consentire al governo centrale di bloccare accordi che coinvolgono i dati dei cittadini americani, mettendo a rischio la sicurezza nazionale. Una bozza di questo documento era stato rivelato da Reuters e si concentra in particolare sui dati sanitari ed è indirizzata esplicitamente contro Pechino. L’intelligence statunitense da tempo ha messo in guardia sui rischi posti dalle società cinesi «che raccolgono i dati personali degli americani investendo in società statunitensi che gestiscono informazioni sanitarie sensibili. La cinese Bgi ha acquistato la società statunitense di sequenziamento genomico Complete Genomics nel 2013 e nel 2015 la cinese WuXi Pharma Tech ha acquisito la società statunitense NextCODE Health».

 

I contrari a queste “chiusure” al traffico di dati sono ovviamente i big tecnologici americani. Amazon, Apple, Google, Microsoft e Meta difendono il libero flusso di dati per questioni economiche, sostenendo che l’economia online è stata alimentata dalla possibilità di far viaggiare i dati in tutte le direzioni. Se le aziende tecnologiche dovessero immagazzinare tutto localmente, non potrebbero offrire gli stessi prodotti e servizi in tutto il mondo. Ma ormai la tendenza sembra segnata, perché l’economia dei dati ormai è un elemento troppo importante per gli Stati, per lasciarlo alla gestione dei privati.

 

In Francia e Austria, ad esempio, ricorda il New York Times, «ai clienti di Google Analytics, che molti siti web utilizzano per raccogliere dati sull’audience, quest’anno è stato detto di non utilizzare più il programma perché potrebbe esporre i dati personali degli europei allo spionaggio americano». E l’anno scorso Parigi aveva bloccato un accordo con Microsoft per la gestione di dati sanitari che sarebbero finiti nelle mani di un’azienda americana. La Francia ha indicato una seconda strada alla «protezione dei dati»: se non si possono inchiodare sul territorio nazionale, allora è necessario che a custodirli e a osservare attentamente il loro flusso sia un’azienda locale. Nel caso francese, Microsoft non ha potuto che accettare l’accordo.