Scenari
Altro che amicizia illimitata: la Cina di Xi Jinping non sostiene più la Russia
Se a parole il supporto politico continua, sul piano pratico le cose stanno molto diversamente. Droni, computer, smartphone e tutto l’export di tecnologia cinese verso il paese di Vladimir Putin si è fermato. Mettendo nei guai la produzione russa
“L’amicizia illimitata” tra Russia e Cina avrebbe incontrato, in ogni caso, parecchi momenti di verifica nel corso del tempo. Ma la guerra in Ucraina ha immediatamente messo alla prova le parole del documento “Sulla nuova era delle relazioni tra Russia e Cina” presentato dal presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin all’inaugurazione dei giochi olimpici invernali a Pechino. Era il 4 febbraio, la crisi ucraina era in ebollizione ma si riteneva ancora fosse sotto controllo. La Cina stava per presentare al mondo la sua “bolla olimpica” anti Covid, un presagio di quanto sarebbe accaduto qualche mese dopo a Shanghai.
Ma gli osservatori attenti non avevano dubbi che in realtà quella tra Mosca e Pechino fosse un’amicizia di convenienza (i cinesi la chiamano “partnership strategica”), nella quale a giocare un ruolo primario è la radice ideologica di questo “patto”: da un punto di vista economico, infatti, i due paesi vanno per la propria strada, rischiando in alcuni casi di calpestarsi i piedi; in Africa, in Medio Oriente, in Asia centrale e perfino nell’Artico, la Cina e la Russia hanno interessi che non sempre potrebbero convergere (e chissà che Pechino non faccia un pensiero sulla prevedibile e attuale minore attenzione di Mosca ad alcuni scenari, specie africani).
Ma alla Cina serviva ribadire che gli equilibri del mondo non sono più quelli post guerra fredda e rivendicare una posizione “da pari” al tavolo dei grandi; a Vladimir Putin serviva un paese potente che gli offrisse certe garanzie (come già era accaduto nel 2014 quando la Cina firmò un contratto di gas ultra vantaggioso per Pechino ma comunque vitale per la Russia impegnata ad aprire le ostilità in Donbass). Poi, terminati i giochi olimpici, ha invaso l’Ucraina.
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Solo che a quel punto la Russia ha chiesto proprio quanto la Cina non voleva mettere sul piatto: il supporto economico. Le ragioni della Cina sono piuttosto ovvie anche perché la situazione si è presentata fin da subito molto differente da quella del 2014. Sulla Russia sono cadute misure economiche epocali decise da Usa, Ue e alleati. Allora Pechino, per evitare sanzioni secondarie, si è mossa in due direzioni molto chiare, che ha sigillato nel corso dei tre mesi di conflitto; da un lato pur criticando le sanzioni (anche in settimana, attraverso le parole del portavoce del ministero degli Esteri) le ha rispettate, dall’altro non ha mai condannato la Russia per l’invasione dell’Ucraina, ribadendo la propria vicinanza alla “narrazione” russa dell’invasione, ovvero una necessità di Mosca per difendersi dall’allargamento della Nato a est e più in generale dalle mire imperialistiche americane.
Quello di Pechino è stato un atteggiamento che a parole è stato gradito da tutti: Bruxelles e Washington, pur sospettosi, hanno dovuto ammettere che la Cina non ha sostenuto in alcun modo Mosca; Volodimir Zelensky a Davos ha lodato la “neutralità” cinese, con le stesse parole utilizzate dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov qualche giorno dopo. Ma quelle di Lavrov sono apparse dichiarazioni di facciata perché a Mosca pare che l’atteggiamento cinese, in realtà, non stia piacendo per niente. E avrebbe cominciato a fare pressioni su Pechino perché il sostegno non sia solo politico, ma pratico. Votare contro o astenersi all’Onu a Mosca non basta: con quei voti cinesi non ci finanzia la guerra.
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Ma su questo punto Xi Jinping non ha intenzione di esporsi, tanto più in un momento molto delicato per la Cina tra rallentamento economico dovuto a guerra e Covid e ventesimo congresso del Partito comunista in autunno (un momento fondamentale per le sorti politiche del paese). Pechino non vuole in alcun modo riaprire il fronte con Unione europea e Washington proprio adesso. Tanto più dopo che Joe Biden, di recente, ha lasciato intendere che potrebbe eliminare alcuni dazi sulle merci cinesi. Come registrato dal Washington Post attraverso fonti cinesi, la Cina non aiuterà in alcun modo la Russia: «Abbiamo chiarito la nostra posizione sulla situazione in Ucraina e sulle sanzioni illegali contro la Russia», ha affermato una fonte a Pechino sentita dal quotidiano americano, «Comprendiamo la difficile situazione di Mosca. Ma non possiamo ignorare la situazione generale. La Cina agirà sempre nel migliore interesse del popolo cinese».
Uno dei motivi principali che hanno portato la Cina a non sostenere la Russia sotto sanzioni ha a che vedere con la tecnologia, soprattutto quella relativa a semiconduttori. Non a caso le spedizioni di tecnologia cinese in Russia, inclusi smartphone, laptop e apparecchiature per le telecomunicazioni sono crollate dall’inizio della guerra. La ragione: le sanzioni imposte dagli Usa alla Russia richiedono, come riportato dal Washington Post «alle aziende di tutto il mondo di rispettare il divieto se utilizzano componenti o software statunitensi per produrre semiconduttori. La maggior parte delle fabbriche di chip in tutto il mondo, comprese quelle in Cina, utilizza software o apparecchiature progettate negli Stati Uniti». È un modo come un altro per bloccare tutti i rifornimenti possibili di microchip per la Russia. E significa mettere in ginocchio il comparto tecnologico e militare di Mosca.
Su questo fronte secondo le parole di alcuni funzionari americani, riportate dal New York Times, i risultati si starebbero già notando, con le fabbriche di carri armati russi che avrebbero chiuso e licenziato i lavoratori e le difficoltà per la Russia a trovare quella componentistica che dipende dalla “lunga filiera” americana. L’ottimismo della Casa Bianca è stato però considerato eccessivo da alcuni analisti, come quelli di Cna, un istituto di ricerca di Arlington in Virginia, che proprio sulle colonne del quotidiano americano hanno espresso «scetticismo su alcune affermazioni secondo cui i controlli sulle esportazioni stavano costringendo alcune fabbriche di carri armati e altre aziende militari in Russia a chiudere».
L’isolamento della Russia da un punto di vista tecnologico, però, rimane pesante. Corea del Sud e Giappone hanno aderito alle misure insieme a oltre trenta altre nazioni e il più grande produttore mondiale di chip, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), ha annunciato che le seguirà.
Pechino si è adeguata: oltre ai semiconduttori, le esportazioni cinesi di prodotti tecnologici in Russia sono diminuite drasticamente già a marzo, con le spedizioni di laptop in calo di oltre il 40%, gli smartphone in calo di quasi due terzi. Tra le aziende cinesi che hanno chiuso i ponti con Mosca c’è Lenovo, il più grande produttore mondiale di personal computer e secondo sul mercato russo dietro HP. Anche Xiaomi, numero due del mercato russo degli smartphone avrebbe tagliato molte spedizioni. Prima di loro e prima di tutte le aziende cinesi, a chiudere con Mosca era stata la Dji, azienda di Shanghai che vendeva i suoi droni militari sia a Kiev sia a Mosca. Stop anche da parte di Huawei che per altro con la Russia ha un rapporto particolare, perché dopo il successo in patria cominciò a internazionalizzarsi (“un’esigenza per sopravvivere al temibile mercato interno cinese” spiegò il fondatore Ren Zhengfei) proprio in Russia dove divenne un brand internazionale. Ma la paura di incorrere in sanzioni secondarie non permette alla Cina alcun sentimentalismo, neanche nel caso di «un’amicizia senza limiti».