Il blocco del grano ucraino minaccia l’Africa ma influenza anche l’Unione europea. Che per combattere gli effetti del conflitto allenta i vincoli per la tutela dell’ambiente. Mentre la lobby dei mangimi incendia la battaglia sul mais

È accaduto tutto nel giro di un’ora. Il 23 marzo, nel cuore di Bruxelles, negli asettici uffici di palazzo Berlaymont, la Commissione europea ha approvato un piano anti-crisi per il settore agroalimentare stordito dagli effetti della guerra. Una strategia che allarga di colpo le maglie della tutela ambientale e che mette a rischio, in nome dell’emergenza, il diritto umano (così lo chiama l’Onu) ad un’alimentazione e ad un ambiente sani. Una decisione che congela e pone a repentaglio anni di battaglie ecologiste che si erano dimostrate al tal punto fondate da diventare normative comunitarie e nazionali.

 

Certo, quel giorno i riflettori dei media si sono accesi sui 500 milioni di euro per sostenere i produttori colpiti dalle gravi conseguenze del conflitto in Ucraina. Un sostegno potente e giustificato in tempi di guerra. Ma a fianco del pacchetto economico, ci sono norme che sono passate quasi inosservate di fronte al rumore assordante delle armi e che mostrano il volto di un sistema talora famelico al punto da usare l’alibi del conflitto per alimentare se stesso. Una deregulation che segna una retromarcia significativa nella strada per convertire in modo sostenibile un modello agroindustriale che trova la sua espressione massima nella zootecnia intensiva.

 

«Gli Stati membri possono consentire la produzione di qualsiasi coltura per l’alimentazione e usufruire di terreni incolti», anche delle cosiddette «Ecological focus areas per tutto il 2022», si legge nel documento. In altre parole la Commissione ha dato il via libera alla coltivazione convenzionale in tutti i fazzoletti di terra disponibili, cancellando gli obiettivi dell’European green deal molto faticosamente raggiunti. E che poggiano su tre pilastri: la revisione della Politica agricola comune (Pac), la Strategia europea sulla Biodiversità e la Farm to fork, che prevede una copertura del 25 per cento della superficie agricola Ue dedicata al biologico al 2030. A rischio terreni destinati ai pascoli permanenti o lasciati a riposo per garantire l’alternanza delle colture, così come le aree destinate alla tutela della biodiversità. Parliamo di 4 milioni di ettari di terreni in Europa e 200 mila in Italia dove sarà possibile derogare anche all’uso di pesticidi.

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La linea è chiara: produrre, produrre, produrre senza freni di sostenibilità. Certo, in tempo di guerra si ha paura. Di morire. Di perdere i propri cari ma anche paura del freddo e della fame. Vengono interpellati i nostri istinti primitivi. Col prolungarsi del conflitto in Ucraina, che vede contrapposti Paesi che sono tra i principali esportatori di cereali e fertilizzanti d’Europa, è iniziata la caccia all’ultimo pacco di pasta o addirittura all’ultimo pezzo di pane. Inevitabile reazione umana, considerato l’aumento smisurato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari scaturito dal blocco dell’export dagli Stati in guerra. Navi cariche di grano ferme nei porti russi e ucraini che danno la sensazione errata di essere tutti, ugualmente, «a rischio fame».

 

È apparsa, quindi, come una manna dal cielo la decisione della Commissione europea di concedere ai Paesi membri la possibilità di coltivare di più e di coltivare ovunque. Ma in questo modo crollano i timidi puntelli raggiunti in anni di lotte per porre un argine all’agricoltura industriale e agli allevamenti intensivi. Eppure la storia dovrebbe insegnare che l’intero settore agricolo contribuisce a quasi un quarto delle emissioni globali di gas serra (dati Ipcc, panel delle Nazioni Unite che si occupa di cambiamento climatico) e che tra gli allevamenti intensivi si annida il grande spettro delle epidemie, ultima tra tutte quella da Covid-19.

 

«Non dobbiamo dimenticare l’origine zoonotica del virus», sostiene Marcos Orellana, Relatore speciale Onu su sostanze tossiche e diritti umani: «Tanto più invadiamo gli spazi naturali, distruggiamo le foreste e le specie selvatiche, tanto più il virus entrerà a contatto con l’uomo». Cioè farà il cosiddetto «salto di specie». Dopo qualche mese dall’inizio dell’emergenza causata da Covid-19, le Nazioni Unite hanno inserito gli allevamenti intensivi tra i fattori di rischio che provocano l’insorgenza delle epidemie perché veri e propri incubatori di virus. Alle malattie zoonotiche vanno ascritte anche l’Ebola, l’Hiv, la Zika, nonché l’influenza suina e quella aviaria.

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Un passo indietro, dunque, rispetto al Green deal tanto invocato negli ultimi tempi che trova la sua forza su un grande equivoco: nell’Unione europea non c’è una crisi alimentare. C’è piuttosto un problema, che ha diverse cause, legato alle materie prime. Mais soprattutto, che l’Italia importa perché più conveniente (necessita di molta acqua) e che finisce per diventare cibo per animali.

 

«Alla fine l’Europa si è piegata agli interessi delle lobby agroindustriali che stanno sfruttando la situazione per eliminare misure a loro sgradite», commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna agricoltura di Greenpeace. Il Copa-Cogeca (Federazione europea di lobbying delle associazioni degli agricoltori) aveva già invocato la sospensione degli obiettivi contenuti nella Strategia europea sulla Biodiversità e nella Farm to fork.

 

In Italia il ministro delle Politiche Agricole, Stefano Patuanelli, si era detto disponibile a rivedere alcuni obiettivi di sostenibilità della Pac. E l’Associazione italiana dei cerealisti aveva chiesto di consentire l’import di mais da Stati Uniti e Argentina limitato dalla legislazione comunitaria. In entrambi i Paesi, infatti, si coltivano varietà Ogm non autorizzate dalla Ue e le norme sui pesticidi sono meno stringenti rispetto alle nostre. Per 17 associazioni ambientaliste, di agricoltori biologici e dei consumatori - che hanno scritto una lettera al presidente del Consiglio, al ministro Patuanelli e a quello della Transizione ecologica - l’Europa ha imboccato una strada suicida sulla scia di una speculazione che usa la paura per derogare alle poche regole fissate per cambiare un sistema agroalimentare malato. Per produrre cosa? Mangimistica.

 

Un dato su tutti: in Europa il 62 per cento dei cereali è destinato a nutrire animali e solo il 22 per cento al consumo umano. Che non ci sia un problema di cibo, del resto, lo ha detto più volte anche il ministro delle Politiche Agricole. Una recente analisi dell’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare) fa chiarezza e mostra come l’aumento dei prezzi dei cereali sia precedente e solo parzialmente imputabile alla guerra perché legato ai cali di produzione globale dovuti ai cambiamenti climatici, agli aumenti dei costi energetici e a dinamiche speculative, essendo questi commodities quotati in Borsa. Prendiamo il grano duro, quello con cui si fanno pane e pasta. L’Italia lo importa dal Canada che ha registrato un calo della produzione del 60 per cento a causa della siccità. Il grano russo e ucraino arriva soprattutto in Nord Africa, Asia e Medioriente. Paesi per cui si corre davvero il rischio di una guerra del pane, tanto che l’Onu ha parlato di «una catastrofe alimentare globale» e Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, ha detto che «in tempi brevi tra i 7 e i 13 milioni di persone in più sono a rischio fame».

 

Non pesa in Italia nemmeno il blocco dell’export di frumento tenero, perché lo importiamo principalmente da Ungheria e Francia. Il problema, quindi, ruota attorno al mais che per il 15 per cento arriva dall’Ucraina. Un numero apparentemente gestibile ma che «diventa preoccupante», secondo Ismea, «per la grande dipendenza estera dei nostri allevamenti», tanto che Coldiretti parla di quasi 100 mila aziende agricole a rischio. E a marzo le quotazioni di mais sono arrivate a 42 euro al quintale sulla piazza di Bologna, più del doppio di un anno fa.

 

L’epicentro della crisi che si sta moltiplicando in queste settimane in Europa nel settore agroindustriale, quindi, deriva da decenni di zootecnia intensiva legata a doppio filo con interessi economici di cui è figlia la nostra insicurezza alimentare. Un terzo dei terreni agricoli europei è usato per dare cibo agli animali e non alle persone. Un’estensione enorme. Eppure non basta: a questi si aggiungono terreni coltivati oltreoceano, dove intere foreste vengono distrutte per fare spazio a colture di soia destinate sempre alla mangimistica. Siamo dentro un paradosso: possiamo produrre di più e ovunque, quando invece dovremmo liberare terreni e risorse per consumo diretto umano. E rispondere al grido delle popolazioni che non possono aspettare la nuova semina per avere, forse il prossimo anno, un pezzo di pane.

 

Un esempio? «Ridurre di circa il 10 per cento la produzione zootecnica europea basterebbe a compensare la gran parte del frumento che l’Ucraina probabilmente non potrà esportare quest’anno», chiosa la responsabile Campagna agricoltura di Greenpeace. La crisi avrebbe potuto essere uno sprone per cambiare modello produttivo. È, invece, l’ennesima mannaia che si abbatte su una comunità internazionale già indebolita dalla pandemia e dai cambiamenti climatici.