“Non è una guerra civile perché dall’altra parte non ci sono ucraini come noi, ma un altro popolo”. Le voci da Kramatorsk, al confine dei territori contesi. Tra ideologia e paura

Più pericolosa dell’oblio, nelle guerre, è la riscrittura della storia. Perché riscrivere la storia significa modellare la memoria degli eventi. Non solo il passato, dunque, ma il futuro.

 

Con 190 mila soldati russi intorno ai confini dell’Ucraina, il presidente Vladimir Putin ha riconosciuto l’indipendenza delle due regioni separatiste nell’est del Paese, autoproclamate nel 2014 Repubblica popolare di Donetsk e Repubblica popolare di Luhansk, territori che si consideravano e si considerano Novorossiya (Nuova Russia), il territorio dell’Ucraina del sud conquistato dall’impero russo nel XVIII secolo. È in questa idea che affondano le radici del tono del lungo discorso di Putin, è lì che ne germogliano gli effetti.

 

Alle 9 del 21 febbraio Putin, in un continuo oscillare tra tragedia e farsa, ha firmato il decreto, gli accordi di «amicizia, cooperazione e mutuo soccorso» con i leader degli aspiranti Stati. Una firma teatrale, messa in scena della messa in scena, preceduta da una riunione del suo Consiglio di sicurezza nazionale, naturalmente favorevole all’operazione. Le due istantanee per il mondo che osservava sono il corpo del capo di fronte all’anello di fedeli, assertivi e complici, e la firma di fronte ai leader dei due Stati vassalli, così legittimati, almeno dal Cremlino.

 

«L’Ucraina non ha mai avuto uno Stato, è una colonia guidata da un regime fantoccio».

 

Putin ha parlato al mondo per parlare ai suoi, ha parlato la lingua nostalgica ammirata di Novorossiya, la lingua del grande impero, perché è intorno a questo che riconosce il suo potere e il suo consenso.

 

L’Ucraina ascolta prudente, e si compatta. L’Ucraina che nelle parole di Putin non è uno Stato ma una colonia, una regione «storicamente parte della Russia».

È questo che fa la guerra, distorce gli eventi con la presunzione di riscrivere la storia.

 

Putin è al centro del tavolo bianco e sa di essere al centro del mondo. Riconoscendo le due Repubbliche separatiste, evocando la Grande Russia, vuole recuperare l’immagine statica di un passato incontaminato, vuole legittimare le sue decisioni investendole di una verità morale che si impone, perché deve, sui capricci delle circostanze, e oggi, per Putin, il capriccio delle circostanze è il percorso democratico ucraino.

 

C’è nelle sue parole quella che gli antropologi definiscono «nostalgia strutturale», la rappresentazione collettiva di un ordine che ha i tratti della divinità, l’immagine di un tempo in cui la struttura sociale, le relazioni tra gli uomini non erano ancora state corrotte, non stavano ancora scontando gli effetti del decadimento del progresso.

 

Oggi quella nostalgia strutturale si gioca sulla pelle di una delle regioni più povere, socialmente fragili, dell’Ucraina. La zona del Donbass, teatro di otto anni di guerra.

La tensione militare sull’Ucraina risale al 2014, alla rivoluzione Maidan, quando l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich fuggì dal Paese dopo mesi di proteste di piazza. La risposta russa fu occupare la Crimea, a distanza di pochi mesi scoppiarono nuove proteste a est, gruppi di milizie separatiste cominciarono a occupare i palazzi governativi a Donetsk e Luhansk, fino a dichiarare l’indipendenza nel maggio 2014 come Repubblica popolare di Donetsk e Repubblica popolare di Luhansk. Si consideravano Novorossiya, appunto: è l’eco dell’impero. L’esercito ucraino reagì riconquistando territori detenuti dai separatisti. Ma con l’arrivo del sostegno militare russo alle repubbliche l’assalto venne fermato da un frettoloso accordo di pace tra Ucraina, Russia e separatisti, Minsk I, che fallì presto. A gennaio 2015, quando ripresero gli scontri, Merkel e Holland, allora cancelliera tedesca e presidente francese, invocarono un cessate il fuoco mediando gli accordi di Minsk II. Da allora parte dei territori del Donbass sono sotto il controllo dei separatisti, da una settimana riconosciuti come legittimi da Mosca.

 

Le prime vittime di questo riconoscimento sono stati proprio gli accordi di Minsk. L’ha detto Zelensky poche notti fa, parlando alla nazione, allertando i riservisti in vista della guerra. Gli accordi di Minsk sono un ricordo del passato, sono morti. Erano partiti male, d’altronde. Poco chiari, sbilanciati, opachi su tempi e modi. soprattutto mai davvero rispettati, nonostante la presenza di osservatori stranieri per monitorare il cessate il fuoco, l’Osce ha registrato 200 violazioni tra il 2016 e il 2020 e oltre mille dal 2021, secondo Novaya Gazeta.

 

Più di 14mila persone sono state uccise lì dal 2014.

 

Questo prima dell’escalation degli ultimi mesi. Ma il problema vero degli accordi di Minsk è la diversa interpretazione che Russia e Ucraina danno al trattato. La divergenza riguardava soprattutto la cronologia degli impegni, piuttosto vaga nei documenti. Per il Cremlino vanno attuate le disposizioni politiche prima di quelle militari. Equivale a dire elezioni e quindi possibilità di avere parlamentari filorussi nel parlamento di Kiev. Kiev voleva che le forze occupanti si ritirassero dall’Est per riprendere il controllo dei confini e solo allora sbloccare i processi elettorali e garantire la possibilità di svolgere elezioni nel rispetto della legge. Ma quella ucraina, ovviamente.

 

Negli anni successivi alla firma di Minsk II la diplomazia non ha fatto passi decisivi. E così, dopo anni di guerra prolungata, minacce quotidiane, e richieste di aiuto di Zelensky rimaste inascoltate, l’Ucraina nel giro di poche settimane si è trovata accerchiata e vive oggi rischiando un’invasione su larga scala da parte dell’esercito russo. Stretto a sua volta in un vicolo cieco, quello di chi, Putin, ha alzato troppo il tiro, usando le due Repubbliche separatiste come pretesto. La Russia non vuole il Donbass per sé, perché il Donbass non è la Crimea. Mosca ha destinato miliardi di dollari alle infrastrutture della Crimea, dopo l’annessione, integrandola fisicamente ed economicamente col resto della Russia, ha migliorato le condizioni di vita in modo significativo. E non esiste oggi uno scenario per cui la Crimea possa tornare sotto l’Ucraina. Diversa è la crisi del Donbass, che Mosca non vuole supportare economicamente. Motivo per cui ha interesse a usare il conflitto sulle due Repubbliche come leva diplomatica ma non vuole farsene carico. La Russia non vuole il Donbass per sé ma è qui, oggi, che si gioca il destino delle sue ambizioni nostalgiche. Novorossiya non riguarda solo la realpolitik, richiama la storia e l’orgoglio e la guerra ibrida che Putin sta esportando.

 

La Russia era già intervenuta con modalità simili in Georgia per sostenere le Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia e in Moldova per stabilire la Repubblica Moldava di Pridnestrovia, nota come Transnistria, regioni europee tagliate fuori da tre diversi Stati sovrani da quando Putin ha assunto per la prima volta una carica nazionale. In altre ex Repubbliche sovietiche come gli Stati baltici, la Russia porta avanti un’implacabile guerra informatica nel tentativo di indebolire e screditare i governi. Per i sostenitori della Novorossiya, l’indipendenza di questi Stati non esiste, ed è improprio definirli Stati autonomi, perché non esistono culture o tradizioni distinte. Non c’è l’Ucraina, per dirla da qui. C’è solo la Russia. La guerra dunque, nella sua forma tradizionale e in quella ibrida, definisce intenzioni e rafforza le ideologie e le motivazioni.

 

Olixey vive a Kramatorsk, una delle città contese. Oggi sotto il controllo dell’Ucraina fa parte però della provincia di Donesk. Sull’interpretazione del confine, quello attuale delle Repubbliche autoproclamate o quello originario, si gioca oggi la possibilità che la guerra sia combattuta oppure evitata. Olixey vuole parlare del suo gruppo musicale quando lo incontriamo nella piazza principale della città, perché è giovane, perché prima di parlare di guerra vuole parlare di come alla guerra si resista. Le sue armi di resistenza sono il giornale per cui lavora e il suo gruppo musicale. Tre volte a settimana, nonostante la guerra si ritrova con il suo gruppo e suona.

 

Lo scantinato, dice sorridendo amaro, a loro serve a questo. A fare arte, i nascondigli sono altri. Il quartiere in cui vive a Kramatorsk non ha rifugi sotterranei antiaerei, sono stati ottimisti quando l’hanno pensato. Eppure essere un giovane in una città come questa significa non poter fare a meno di pensare alla guerra ogni giorno. Impossibile evitarne la tensione, impossibile schivarne gli effetti. E lui gli effetti li vede in casa. Nelle memorie di sua figlia che ha dodici anni, gli ultimi otto vissuti con la guerra intorno. Nel 2014 era una bambina. I morti di quella guerra li ha visti in strada e non li dimentica. Quando vede la televisione in questi giorni, chiede al padre: «Cosa farai? Combatterai anche tu?». Olexey non ha un’arma, non si addestra. Ma è pronto a mettersi a disposizione del paese se Zelensky chiamerà a raccolta gli uomini per difendere i confini. Non vuole mostrarsi più coraggioso di quello che è. Ha paura, prima di tutto. E non si vergogna, dicendolo. Il primo sentimento, il primo istinto la sera cercando di dormire, non è l’eroismo di chi si vede al fronte, ma la paura di un padre che non sa come proteggere sua figlia.

 

Lo scorso anno la storica Margaret MacMillan ha pubblicato un libro dal titolo: “War, come la guerra ha plasmato gli uomini”. Scrive: «Capendo la guerra, capiamo la storia dell’essere umano». MacMillan non guarda le guerre sotto l’ottica morale ma descrive il conflitto armato come intrinseco all’umanità, perché, dice, «solo se partiamo da questo presupposto capiremo che, nella comprensione della guerra, capiamo qualcosa degli esseri umani, perché la guerra non è solo il comportamento atavico che pensiamo che sia»; è, purtroppo, altamente sofisticata, «la più organizzata di tutte le attività umane».

 

Ben più e ben oltre il controllo dei territori, equivale al controllo delle idee e di conseguenza, delle identità. «Combattiamo perché possiamo», scrive MacMillan, perché ne abbiamo i mezzi certo, ma leggendo più in profondità queste parole, significa anche: combattiamo finché la guerra sostiene il consenso, modella le parole, la verità che esprimono e anche il loro inganno. Ecco perché il modo in cui raccontiamo la guerra e la pace influenza intrinsecamente il modo in cui concepiamo le altre popolazioni e noi stessi; ci incoraggia a esprimere giudizi morali sulla natura umana e legittima le valutazioni su come gli altri hanno agito e se avevano o meno il diritto di farlo. Quando chiedo a Olixey se questa sia una guerra civile, non ha un’esitazione. «Non lo è», mi dice. «Gli altri, i nemici, i separatisti, non parlano la nostra lingua. Non sono ucraini come noi, se lo fossero sarebbe una guerra civile», mi dice. «Dall’altra parte ci sono i russi, questa è un’aggressione».