Ogni giorno decine di profughi provano a entrare nel nostro continente. Ma ce la fanno in pochi, stremati da fame e freddo. Siamo andati sui luoghi dove si combatte per un futuro

Il telefono squilla a vuoto. Una, due volte. Mentre l’auto s’inerpica sulle strade bulgare, cerchiamo di rintracciare Hedayat, trentenne afgano che insieme al cugino e a due bambini ha deciso di risalire le montagne per arrivare in Romania o in Serbia. Siamo sulla rotta balcanica, quella che i governi europei dicono sia quasi congelata, cioè battuta ormai da pochi migranti. In realtà è congelata per davvero, con temperature di molto sotto lo zero in questi giorni. Ma il passaggio di chi fugge dalla guerra e dalla disperazione c’è comunque ed è costante, nonostante il rischio di morire di freddo. Hedayat, grazie a un contrabbandiere, è riuscito a superare il muro di filo spinato che separa la Turchia dalla Grecia e ha intrapreso il suo cammino a piedi. Lo abbiamo intercettato a Yasna Polyana, una trentina di chilometri dal confine turco, però, malgrado gli avvertimenti della pericolosità del viaggio in certe condizioni atmosferiche, ha deciso di proseguire. Ha pagato molti soldi per il passaggio e ha il timore di perderli. Sarebbe un disastro, anche perché le migliaia di euro che ha dato al trafficante le ha avute in regalo dalla sua famiglia. «Mia moglie è stata uccisa dai talebani e mia madre mi ha detto di portare in salvo i miei figli», ha raccontato Hedayat prima di partire: «È il sacrificio estremo dei miei genitori, che preferiscono soffrire freddo e fame pur di saperci in un luogo sicuro». Dopo che lui, il cugino e i due bambini si sono incamminati, abbiamo proseguito per avvicinarci al muro di confine con la Turchia. Duecentotrentacinque chilometri di fortificazione costruita dal governo bulgaro a partire dal 2014. A pochi metri, la polizia di frontiera ci ha fermato. Nonostante le numerose richieste via mail, non hanno voluto rilasciarci il permesso di percorrere qualche metro di recinzione. E così abbiamo fatto dietrofront.

 

È su una stradina boscosa che abbiamo incontrato un gruppo di uomini in mimetica. Dicono di chiamarsi “bulgarian shield” e di essere dei volontari che affiancano l’esercito e la polizia di frontiera. «Non siamo il BNOShipka (mercenari attivi nel 2016, ndr) siamo un altro gruppo, ma come loro presidiamo i sacri confini della nostra patria», dice un uomo con giubbotto militare e scaldacollo a coprire naso e bocca. Ci vieta di fotografare e non dice il suo nome. Racconta che al momento sono circa tredici membri, ma la lista d’attesa è lunga. «Per far parte del gruppo bisogna fare allenamento in campi di addestramento che abbiamo organizzato noi stessi», racconta il ragazzo con fierezza. Alla cintura ha un teaser. Sono tutti nazionalisti, fanatici delle armi e della violenza. Tra loro c’è anche qualche ex militare che mette a disposizione la sua conoscenza tattica. Collaborano con la polizia bulgara, ma non sono soggetti alle stesse regole. E spesso, infatti, i migranti li pestano a sangue, prima di chiamare la polizia che li prende e li respinge in Turchia. Il governo di Sofia, dicono, sa cosa succede, ma non interviene. Perché, in fondo, gli sta bene così.

All’alba il nostro viaggio procede verso la Macedonia del Nord. Ci vogliono quasi otto ore di viaggio per arrivare a Gevgeljia, al confine con la Grecia. La polizia macedone, a differenza di quella bulgara, ci ha rilasciato il permesso per avvicinarci al muro e per visitare il centro di accoglienza. Il valico tra i due Paesi non è più battuto come nel 2015, quando tra Gevgeljia e Idomeni, la prima cittadina greca, c’erano migliaia e migliaia di migranti. All’inizio del 2016, infatti, anche la Macedonia ha costruito una recinzione alta tre metri, fatta di ferro e filo spinato, che corre lungo 37 chilometri. Anche se la Macedonia non è più una delle rotte principali, sono ancora diverse decine ogni giorno a tentare di superare la barriera per poter attraversare il territorio e arrivare in Serbia. Ci provano lo stesso, anche se fa freddo e nessuno dei migranti ha vestiti abbastanza caldi. Qualche giorno fa, nelle campagne a pochi metri dal muro la polizia di frontiera macedone ha trovato il corpo di un uomo e di una donna. Sono morti congelati, nonostante avessero tentato di sopravvivere accendendo un fuocherello. Non è bastato. Mentre ci avviciniamo alla recinzione nevica, c’è un vento teso e pungente ma in lontananza, sul lato greco, vediamo un gruppo di persone. Sembrano donne e bambini, ma sono troppo distanti per esserne certi.

 

Intanto, la polizia ci permette di salire in macchina con gli agenti di pattuglia per fare una ricognizione. Indico il movimento in lontananza. «In questo caso ci aiuta il visore termico che ci permette di individuare meglio le persone e di recuperarle. Dalla primavera in poi sono tanti a passare. Scavalcano, tagliano le reti… Adesso sono di meno, ma ci sono e se muoiono di freddo per noi è un problema. La Macedonia non ha le spalle coperte dall’Unione Europea», spiega il poliziotto alla guida. Alla fine del pattugliamento, arriviamo al centro di accoglienza, che si trova a pochi metri dal muro. «Il nostro timore è di trovare cadaveri in questo periodo», dice uno dei responsabili. «Ne abbiamo trovati alcuni nelle ultime settimane, e anche in Grecia sappiamo che sono morte congelate delle persone. Quando la polizia li prende, li porta qui, almeno si riprendono, si scaldano. Poi dobbiamo seguire le regole e respingerli in Grecia», spiega.

Entriamo nel centro quasi vuoto. Sono stati mandati tutti via tranne una decina di ragazzi siriani. Cinque di loro sono in attesa di comparire davanti al giudice, perché erano in macchina con un trafficante e sono rimasti coinvolti in un brutto incidente. La polizia li ha arrestati tutti e ha sequestrato il veicolo, che ora è abbandonato all’ingresso del campo, mezzo fracassato. Abdulkafi parla poco inglese ma sono i suoi occhi a colpire: fissi, come se guardassero senza vedere. I responsabili del campo non ci permettono di fotografarli in faccia e allora parliamo con loro mentre la Croce Rossa distribuisce il pranzo. Poi, mentre siamo lì, arriva un furgone della polizia a sirene spiegate. Hanno appena beccato, da un altro punto del muro, un gruppo di ragazzi che ha tagliato la rete e si è infilato in Macedonia. Tremano e hanno paura ma sanno benissimo cosa li aspetta. Push back. «Adesso li dobbiamo identificare, li dobbiamo sistemare, quindi non puoi parlare con loro», dice il poliziotto. La porta dello stanzone si chiude davanti a noi e di questi ragazzi intravediamo solo le sagome. Prima di andare, uno dei siriani sfugge al controllo del militare e si avvicina. «Please, please…», mi chiede di farlo uscire dal centro, come se avessi il potere di cambiare il suo destino. E ogni volta è un dolore in petto vedere, toccare, sapere, senza che si possa davvero fare qualcosa. Mentre ci scortano fuori dal centro, uno dei ragazzi appena arrivato si sente male e corre il medico. Ha la polmonite.

Come nel Mediterraneo centrale, sulle coste dell’Egeo. Al confine con la Bielorussia o tra l’Ungheria e la Serbia, la sensazione è sempre la stessa: quella di una bruciante delusione per una Europa che respinge e indigna. Che lascia morire annegati uomini, donne e bambini, che li lascia morire di freddo. Che si gira dall’alta parte mentre si continuano a costruire muri. E così, con denaro e filo spinato, pare quasi che i confini dell’Europa diventino più larghi, per spingere sempre più fuori tutti coloro che chiedono aiuto. Eppure, anche nel più sperduto dei villaggi di confine il segno di un’umanità che esiste e resiste c’è. Poco fuori Gevgeljia troviamo la casa di Kuzman, che dal 2015 ha sempre dato ospitalità ai migranti. Gli portava cibo, coperte, giochi per i bambini. E anche ora che quel flusso di gente non c’è più, lui resta alla finestra, pronto a dare una mano. «Qui in Macedonia siamo tutti serbi e bosniaci, abbiamo conosciuto la guerra, sappiamo cosa vuol dire», racconta Kuzman. «Siamo scappati, emigrati, ma era un mondo diverso e abbiamo ricevuto accoglienza. Oggi, questi figli si trovano di fronte a porte chiuse, indifferenza e odio. Noi abbiamo avuto altre possibilità. Come possiamo non fare qualcosa, adesso?». Il simbolo della solidarietà di Gevgeljia con i migranti è un guanto di lana, guarda caso verde, come le lanterne in Polonia. Ma è solo una coincidenza. In realtà, tutto è nato proprio nel 2015, quando Kuzman aveva convinto una fabbrica a donare guanti ed erano tutti color bottiglia. Perciò, infilati su un palo, appesi a una staccionata o lasciati su un muretto, quei guanti erano a disposizioni di chi ne avesse bisogno. Ed è ancora così. «Anche a Idomeni è rimasta traccia di quella solidarietà», spiega ancora Kuzman. «Ora che il campo profughi è stato smantellato, i migranti che arrivano al confine restano al gelo e rischiano di morire. Allora, i cittadini hanno creato un gruppo Telegram per segnalare le case abbandonate, così che possano occuparle temporaneamente». Giusto il tempo di ripararsi dal freddo. Durante il viaggio di ritorno verso Sofia, proviamo ancora a rintracciare Hedayat, per sapere se sta bene, dov’è. Il telefono squilla. Una, due volte. Nessuna risposta.