Produzioni intensive, concimi chimici, emissioni, delocalizzazione e sfruttamento dei braccianti. Il più cortese dei gesti nasconde le stesse pratiche dell’economia del cibo. Per questo arriva anche in Italia Slow Flowers

Provenienza e qualità del cibo che arriva sulle nostre tavole stuzzicano frequentemente il nostro interesse, ma ai fiori si fa davvero poco caso: si comprano solo per grandi occasioni e in quel momento ci si meraviglia per un attimo dei soldi lasciati al fioraio.

 

Le rose sembrano non profumare più come prima e il bouquet finisce per appassire dopo meno di una settimana, ma con esso di solito anche il dubbio sul costo di quell’acquisto va nel dimenticatoio. Dietro ai cinquanta euro per un bel mazzo di undici rose rosse a stelo lungo o per una dozzina di tulipani olandesi c’è tuttavia una lunga catena di attori, che ad ogni anello diventa un po’ meno sostenibile da un punto di vista economico, sociale e ambientale.

 

L’industria floreale globalizzata è infatti un business costruito sulla coltivazione di fiori acquistati a prezzi stracciati, rivenduti all’asta, prodotti con pratiche inquinanti e in condizioni di lavoro ingiuste. È una sorta di colorata e profumata Wall Street con tanto di «broker dei fiori», una figura che fa da collante tra coltivatori e commercianti attraverso una lunghissima filiera.

 

Alla base ci sono i «breeders», le multinazionali che producono e vendono sementi, fanno poi il loro ingresso i «growers», per lo più inglesi e olandesi, che comprano i semi e delocalizzano le coltivazioni in Africa o in Sud America a condizioni economiche più vantaggiose. Segue il comparto import/export, dove a giocare sono proprio i broker, il tramite tra le società di logistica e trasporto. Solo al termine della catena si arriva a grossisti, fioristi e per ultimo ai clienti: affari che poco si sposano con la sostenibilità etica e ambientale. Si avranno, per esempio, emissioni quasi nulle per le nostre ortensie piantate nel giardino di casa, 350 grammi di CO2 per una rosa coltivata in Kenya ed oltre due chili per un tulipano cresciuto in serra nei Paesi Bassi.

 

Ma se per coltivare i fiori sul terrazzo non è previsto sicuramente alcuno sforzo, per le industrie florovivaistiche il discorso è ben diverso: il mercato chiede qualsivoglia fiore e in qualunque momento, anche se ciò va contro i ritmi della natura, proprio come accade a frutta e verdura. Inquinare diventa quindi inevitabile, poiché è necessario creare le condizioni adatte al mantenimento del bocciolo che è costretto a viaggiare attraverso i continenti, inondato da sostanze ritardanti e congelato dentro celle frigorifere che ne riducono i tempi di appassimento. A giovarne non sarà di sicuro l’ecosistema, ma un mercato florovivaistico che attualmente vale 55 miliardi di euro e che si stima continuerà a crescere intorno al 6 per cento annuo. Inoltre, i professionisti del settore hanno ben pensato di spostare i propri orizzonti in quelle nazioni dove il lavoro già costa meno e oggi sul podio dei produttori di steli recisi compaiono Thailandia, Colombia e Kenya. Il che significa che prima di raggiungere un vaso europeo, un mazzo di rose colombiane dovrà percorrere migliaia di chilometri nel più breve tempo possibile, producendo qualcosa come 360 mila tonnellate di CO2. Cifre da capogiro se si pensa che il valore di queste importazioni dai Paesi in via di sviluppo raggiunge oggi i 718 milioni di euro.

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A questi numeri vanno sommati anche quelli relativi agli impatti connessi ad un ciclo di coltivazione in serie, con uso di concimi chimici e soprattutto tantissima acqua, situazione quest’ultima che comporta pesanti modifiche ambientali. In pratica, una carrellata di problemi dietro a quell’acquisto fatto in un momento speciale, che non aveva acceso la nostra attenzione e forse neppure l’interesse. A trasformare il trittico «organico, locale e stagionale» nel mantra del gemello movimento dell’alimentazione globale è oggi lo Slow Flowers, poiché proprio come il cibo, anche un fiore a chilometro zero è qualitativamente migliore per profumo e durata, con la garanzia di una filiera corta e pulita sotto molti aspetti.

 

Fondato negli States, nel 2014 ad opera della scrittrice Debra Prinzing, il movimento promotore della filosofia del fiore etico è ora arrivato anche in Italia, partendo dall’impegno di un gruppo di floricultori delle colline del Chianti, che hanno creduto in un’arte rispettosa della stagionalità e localizzazione, coinvolgendo una ventina di aziende pioniere, che mettono in stretta comunicazione coltivatori, fioristi e clienti. La Slow Flowers Italy è una grande comunità inclusiva che sostiene attivamente una modifica delle pratiche di approvvigionamento dei fiori da parte di consumatori e professionisti del settore, attraverso azioni di sensibilizzazione e educazione. «Dobbiamo tornare ai ritmi della terra e lasciar parlare la bellezza della natura; coltivare e donare un fiore deve essere un gesto che ci riporta al nostro ritmo naturale», afferma Tommaso Torrini, presidente di Slow Flowers Italy.

 

«Noi vogliamo divulgare una nuova cultura del fiore, una bellezza portatrice di un messaggio etico e guidare la produzione e il consumo verso scelte più rispettose di ambiente, territorio e uomo», com’è spiegato anche nel Manifesto dell’associazione. Spuntano così le fattorie fiorite della rete slow: piccole farm con laboratori annessi per avvicinare i meno esperti alla coltivazione di fiori stagionali ad emissione zero di gas serra e mettendo in risalto la grande qualità contro la minore varietà che ne consegue. «Coltivando specie diverse, si crea un habitat capace di attrarre insetti “buoni” e allontanare quelli “cattivi”, così noi possiamo fare a meno di antiparassitari, diserbanti o fertilizzanti», spiega Marzia Barosso di Viale Flower Farm, azienda fondata due anni fa nelle colline del Monferrato per produrre fiori dal taglio sostenibile.

 

Stanchi di vedere sempre gli stessi boccioli in qualsiasi stagione con i petali imbalsamati e soffocati in grandi pacchi di cellophane, diventerà entusiasmante ammirare una produzione in pieno campo che si modifica in base alle condizioni climatiche, fiorendo spontaneamente come madre natura comanda. È questa la fotografia che le farm italiane vogliono offrire: il ritratto di un paesaggio genuino rivolto a chi non si è distratto dal fioraio, perdendo di vista il viaggio del fiore prescelto, l’impatto ambientale e i diritti umani calpestati.

 

«Pochi sanno che il fiore che acquistano sotto casa ha percorso decine di migliaia di chilometri su un Boeing, ha passato tre giorni in frigorifero, è stato smerciato ad un’asta ed è infine giunto in Italia con un aereo prima di compiere le ultime centinaia di chilometri su strada. Costa poco perché, nella maggior parte dei paesi africani i lavoratori – spesso donne e bambini – non sono tutelati in alcun modo», afferma Francesco Mati, presidente della Federazione nazionale florovivaistica di Confagricoltura. Ad assicurare dignitose condizioni di lavoro, proteggendo i lavoratori delle serre e soprattutto supportando operai ed operaie nella conoscenza dei propri diritti è la Fairtrade, un’organizzazione internazionale che ogni giorno tutela più di un milione e 700mila braccianti agricoli in Asia, Africa e America Latina, dove la manodopera è a basso prezzo, non ci si cura della dignità e gli ambienti di lavoro risultano ancora insalubri e pericolosi.

 

Non c’è da stupirsi se dei 2300 lavoratori di quattro serre ecuadoriane, più della metà sia rappresentata da donne, che vedono garantito soltanto da pochi anni un impiego stabile con stipendi equi, norme di sicurezza e corsi di formazione, congedi di maternità e servizi all’infanzia, condizioni troppo rare, e persino insolite da chiedere, per le donne contadine. Una catena con molti nodi da sciogliere e nella quale il nostro ruolo da semplici clienti non risulta affatto marginale. Affidarsi a fioristi e vivai che fanno parte della rete slow, richiedendo una certificazione di garanzia e seguendo stagionalità e territorialità dei boccioli, ci eviterà di fare acquisti azzardati e modaioli. Così da distratti e inesperti compratori di steli recisi, prima stuzzicati dall’effetto che avrebbe potuto fare un dono esotico, ritorneremo a pensare quanto sia più bello e genuino «quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna».